Pagine

giovedì 19 aprile 2012

Crisi dei partiti e democrazia

 

Il sistema di rappresentanza, mediato dall'attività dei partiti politici, sta attraversando, nel nostro Paese, un momento di grave difficoltà a causa della crescente insofferenza dell'elettorato nei confronti dell'attuale classe politica. Il problema, iniziato con il crescente fastidio per l'uso, per molti versi, personalistico della politica da parte del precedente capo del governo e per la continua ed esasperata conflittualità tra i partiti, è dapprima esploso con il momentaneo accantonamento dell'utilizzo di personale politico per la formazione del nuovo governo Monti ed oggi ha raggiunto il suo apice col susseguirsi delle notizie sull'uso distorto dei soldi rivenienti dal rimborso elettorale. In particolare, in questo momento, risulta particolarmente insopportabile venire a conoscenza che nonostante si sia sostanzialmente eluso quanto venne a suo tempo indicato dal referendum popolare, che aveva espresso un categorico no (ca. 90%) al finanziamento pubblico dei partiti, si sia ottenuto un rimborso d'entità ben superiore alle effettive spese sostenute (ca. 529 milioni di euro in cinque anni contro rimborsi per oltre 2,2 miliardi di euro) e che la mancanza di controlli interni abbia potuto permettere un possibile uso irregolare di queste risorse. Attendiamo con rispetto l'esito dell'azione dei magistrati; ma, il giudizio politico dell'elettorato sembra essere già ampiamente negativo. I recenti sondaggi vedono un crollo della fiducia nei partiti, un aumento ad oltre il 50% dell'intenzione di astensione al voto e ca. l'80% degli intervistati desidererebbe che i rimborsi elettorali venissero eliminati o drasticamente ridotti.La crisi di credibilità dei partiti non è tuttavia un fatto "privato" perché mette in crisi il rapporto del cittadino con la politica e le Istituzioni. La questione è di così vitale importanza che il Capo dello Stato ha sentito l'obbligo di richiamare l'attenzione sul problema e difendere la nobiltà dell'impegno politico.

E' ormai comunemente richiesto un cambiamento del sistema dei partiti che consenta una maggiore partecipazione e controllo dei cittadini sull'attività degli stessi.

Da più parti si ritiene ormai necessario che si proceda all'abolizione o per lo meno alla drastica riduzione del finanziamento pubblico, alla riforma dello stato giuridico dei partiti, in modo da consentire una più ampia responsabilità e la certificazione obbligatoria dei bilanci, alla verifica dei meccanismi di democrazia interna e di ricambio della classe dirigente.

Cosa ha portato a questo distacco dalla società civile? Eppure questi partiti hanno una vita relativamente recente. Essi sono per lo più nati in risposta alla profonda crisi già subita dal sistema politico in occasione degli scandali di " mani pulite". C'è sicuramente in Italia una questione morale che tuttavia sarebbe fuorviante interpretare solo come una questione d'illegalità. L'impressione è che molto sia legato all'incapacità di tenere il passo con i mutamenti di un mondo che, dopo la caduta del muro di Berlino, ha avviato una competizione economica e culturale a livello globale. C'è un ritardo culturale e d'interpretazione della realtà che permea larga parte dei nostri comportamenti e ci spinge verso il sottosviluppo. La corruzione sta diventando un problema endemico di questa società e la rendita di posizione prevale sulla produttività.La politica che avrebbe dovuto guidare il Paese verso un nuovo ciclo di sviluppo è invece racchiusa in se stessa incapace di concepire una proposta complessiva credibile e praticabile. E' proprio da questa incapacità che nasce in primo luogo la litigiosità, la supponenza e la frammentarietà dei vari raggruppamenti e dall'altro l'arroccamento e l'incapacità di confronto che fa sì che ogni gruppo abbia cercato in primo luogo la propria sopravivenza (che nel migliore dei casi è identificata con la difesa dei propri valori ritenuti a torto o a ragione universali). Non sfugge a questa logica né la necessità di ottenere dallo Stato i mezzi necessari per svolgere la propria attività né l'arroccamento della classe dirigente   a difesa del corpo costituito che impedisce in qualche modo una reale partecipazione popolare all'interno dei partiti. Queste preoccupazioni si riflettono in quasi tutte le regole statutarie, e sulla base di quest'ottica può essere letta la gestione dei beni mobili e immobili tramandata dai gruppi dirigenti dei partiti (via via trasformatisi storicamente) attraverso società e fondazioni varie di cui i partiti ultimi nati non hanno tuttavia il controllo.Sfugge a questa classe dirigente politica che i beni mobili e immobili sono di proprietà di tutti gli iscritti ed elettori che hanno seguito le evoluzioni politiche storiche verificatesi e che non basta essere stati a suo tempo i dirigenti di quel partito per mantenerne il diritto alla gestione.. Perché le hanno gestite in questo modo elitario? Forse per un desiderio di protezione del partito e della sua missione storica ma, in mancanza di un vero controllo democratico dal basso, hanno probabilmente prestato facilmente il fianco a comportamenti non propriamente regolari di qualcuno e non hanno permesso lo sviluppo del dibattito culturale e politico.

Oggi la parola d'ordine: "Affamare" la politica può aiutare le classi dirigenti dei partiti a rivolgere una maggiore attenzione nei confronti della base che rappresentano, costringendoli a cercarne il sostegno. La questione del controllo dei mezzi finanziari fa sì inoltre che venga adeguatamente valorizzato un percorso democratico delle decisioni e della rappresentatività sia interna che esterna.

"Affamare" la politica può favorire ancora processi di fusione organizzativa e disponibilità maggiore al superamento delle diversità non discriminanti.

Il 50% di cittadini italiani distanti dalla politica ha probabilmente bisogno d'attenzione e di partecipazione. I partiti possono ritornare a svolgere questo compito, di grande rilevanza sociale, a patto di riuscire a mettersi in discussione e comprendere che il "metodo" oggi è una questione di merito e presupposto di un processo di sviluppo della democrazia.

Solo in questo modo è possibile sperare nella formazione di una classe dirigente politica più vicina al proprio elettorato e più capace infine di affrontare le responsabilità di questo difficile momento della vita del nostro paese godendo della fiducia della società civile.

 

 

venerdì 13 aprile 2012

Un momento difficile

"Tanto tuonò che piovve" potremmo dire, ripescando dalla nostra memoria una frase sentita spesso nelle discussioni dei nostri vecchi.

Allo stesso modo, la crisi economico/finanziaria, che ci attanaglia da anni, ci ha condotto, ormai in maniera evidente, all'interno di un periodo di recessione che ci auguriamo sia il più breve possibile. E' recente la notizia di un calo della produzione industriale italiana di ca. il 6% e le previsioni di riduzione del PIL, nell'anno in corso, prefigurano dei valori fra l'uno e il due per cento.

Se aggiungiamo a tutto questo l'aumento, in valore assoluto, del debito pubblico ad oltre 1.960 miliardi di euro ed il ritorno del differenziale del tasso fra i nostri titoli BTP ed i Bund tedeschi ad oltre i 350 punti, non c'è da stare molto allegri.

Le tensioni presenti nei mercati borsistici mondiali e sui paesi più deboli dell'area euro mostrano inoltre l'incertezza degli operatori internazionali e della connessa speculazione sul futuro economico.

La ripresa americana presenta segnali di debolezza. La crescita del prodotto cinese sembra rallentare e soprattutto l'area europea sembra entrata quasi completamente in recessione.

In questi giorni, il nostro Parlamento sta discutendo l'approvazione dell'inserimento nella Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, come primo passo nella direzione della piena realizzazione del "fiscal compact", voluto fortemente dai paesi forti dell'euro con in testa la Germania.

Questo provvedimento dovrebbe consentire il definitivo controllo europeo sulla possibile dilatazione del debito pubblico dei paesi meno virtuosi, fotografando una situazione comune da cui ripartire.

Ma saremo in grado di farlo?

La domanda che nasce inevitabile è quella di capire se, dopo aver cristallizzato la situazione del debito, vi sia la volontà politica di metterlo in comune per ripartire da zero, come un'unica entità politico economica capace di assumere un ruolo internazionale competitivo all'esterno e di attuare all'interno una politica di risanamento, di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza fra i diversi Stati membri.

E' su questo progetto che il mercato finanziario esprime i suoi dubbi, attaccando, insieme alla speculazione, gli anelli più deboli della catena. La creazione di un Fondo salva stati, con una dotazione che può arrivare complessivamente al massimo a ca. 700/800 miliardi di euro, non sembra la soluzione al problema, nell'attesa di un deciso passo avanti verso l'unione politica, fiscale ed economica.

Sarebbe stato più utile accettare un ruolo della BCE come prestatore di ultima istanza, rassicurando così i mercati sulla sicurezza del rimborso dei titoli del debito pubblico di qualsiasi Stato membro dell'Unione, anche se con il rischio dell'accentuazione dell'inflazione e della perdita di valore dell'euro.

E' questa la principale preoccupazione tedesca: quella di veder svalutato l'euro (quindi il valore del proprio surplus e del livello di vita del proprio popolo), a causa di una possibile inflazione connessa ad un'eccessiva circolazione monetaria.

D'altra parte, il rischio di una svalutazione dell'euro sarebbe compensato da una maggiore competitività ed appetibilità dei prodotti europei; inoltre, non è detto che la possibile inflazione si presenti in maniera così pesante come temuto, perché la necessità d'immettere moneta sul mercato potrebbe essere inferiore al previsto in quanto gli investitori potrebbero sentirsi subito rassicurati dal nuovo ruolo svolto dalla BCE ed assestarsi su di un rendimento medio dei titoli in euro leggermente superiore al tasso d'inflazione oggi registrato nell'area.

In quest'ipotesi, potrebbe verificarsi una riduzione dello spread fra i titoli dei diversi stati membri, che potrebbe tuttavia penalizzare il rendimento di quelli più virtuosi.

La successiva emissione di un debito europeo, per il finanziamento della crescita, sarebbe il secondo passo auspicabile e decisivo per rilanciare le nostre economie e dare il tempo per la successiva integrazione politica ed economica.

Come sempre, le decisioni finali non sono pertanto un problema di tecnica economica ma di natura politica e sono banalmente legate alla capacità di concertazione fra il tornaconto personale dei singoli paesi membri e delle loro popolazioni e la progettualità collettiva.

Se invece si continueranno a mantenere le distanze e le differenze all'interno dell'area europea senza mettersi opportunamente in discussione è facile prevedere un accanimento della speculazione e l'aumento della sfiducia degli investitori internazionali verso un'area debole, priva di sviluppo, con un debito finanziario eccessivo e, soprattutto, priva di una classe dirigente in grado di agire secondo un piano comune efficace.

All'interno di questo quadro di riferimento, il nostro Paese, privo della sovranità sulla propria moneta, indebitato oltre un livello sopportabile, rischia di soccombere a causa della stessa cura che cerca di guarirlo. Nessuno vuole mettere in discussione le necessarie manovre sulla riforma pensionistica, le riforme attuate in campo fiscale, né il timido compromesso sulle liberalizzazioni e sulla riforma del lavoro, ma è il momento di fare molto di più.

Non possiamo sperare ed aspettare l'aiuto europeo! Dobbiamo fare da soli!

Bisogna far ripartire la funzione di finanziamento delle Banche nei confronti delle attività commerciali, anche aprendo una vertenza nei confronti dei criteri di capitalizzazione previsti dall'EBA, European Banking Authority (che prevede l'appostazione, al valore di mercato, dei titoli di Stato presenti nell'attivo del bilancio delle Banche evidenziandone la possibile perdita in conto capitale) quanto mai inopportuni in un momento come quello attuale.

D'altra parte, anche la possibile garanzia dello Stato a sostegno dei finanziamenti, se non fosse valutata a rischio zero, non consentirebbe la concessione senza intaccare il patrimonio di vigilanza.

Dobbiamo avviare un completo piano energetico nazionale che ci consenta di ridurre la nostra dipendenza energetica e diminuire significativamente l'incidenza negativa dei relativi costi all'interno della bilancia commerciale.

Dobbiamo riesaminare complessivamente la capacità e la validità dei nostri settori produttivi cercando di favorire tutti i possibili investimenti verso quelli più competitivi, innovativi ed in cui è plausibile ottenere un premio di remunerazione in base alla qualità più che rispetto al costo.

Dobbiamo ridurre il carico fiscale sulle imprese e sul lavoro, utilizzando tutto quello che è recuperabile dalla lotta all'evasione fiscale, dallo "spending review" e da una possibile maggiore tassazione dei redditi elevati oltre 150.000 euro e sui grandi patrimoni (compresi quelli detenuti dalle fondazioni) come stimolo alla domanda interna.

Dobbiamo infine rendere la macchina dello Stato e l'amministrazione pubblica una "macchina da guerra" che, invece di assorbire quasi la metà del PIL in una logica, in alcuni casi, parassitaria, intervenga attivamente per la sua crescita.

Pensiamo ad un'amministrazione pubblica in cui si attui uno spostamento settoriale delle risorse umane in modo da consentire una maggiore prestazione di servizi che, da un lato rappresentino delle economie per la popolazione civile e per le imprese, e dall'altro possano costituire delle vere e proprie attività remunerative.

Infine, se il processo di unità europeo dovesse mostrare dei limiti tali da indurre a ripensarne l'intera progettualità, attestandosi su obiettivi più modesti, dovremmo essere pronti a considerare una possibile uscita dall'euro, ritrovando la sovranità sulla nostra moneta.

Tutto questo ha bisogno di un rinnovato clima di unità nazionale e di una classe dirigente politica e civile all'altezza di uno dei momenti più difficili che il Paese abbia attraversato.