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venerdì 14 giugno 2013

L'organizzazione del fattore lavoro


 
La velocità con cui, nel mondo attuale, il capitale finanziario si muove, cercando le occasioni più interessanti di guadagno, costringe a rivedere   le categorie mentali con cui siamo soliti osservare l'evoluzione della società.
Vengono finanziate le combinazioni più vantaggiose di capitale e lavoro ovunque trovano un ambiente favorevole e disponibile, anche a scapito di quelle conquiste salariali e del welfare, patrimonio dei paesi occidentali.
Vi è una capacità organizzativa mondiale del fattore produttivo "capitale", di fronte a cui appare evidente la difficoltà organizzativa e la frammentazione del mondo del lavoro. La gestione dei capitali può contare su di un sistema finanziario mondiale, che supera la dimensione nazionale, l'influenza ed il peso degli stessi Stati. Esistono poi, accanto alle situazioni ufficiali, tutta una serie di paradisi fiscali e zone franche dove si sviluppano e crescono i rapporti fra capitali rivenienti da attività illegali e legali. La maggiore capacità di guadagno, ottenuta dai capitali produttivi, grazie alla disorganizzazione, frammentazione e sfruttamento mondiale del lavoro, consente poi alla finanza ed alla rendita di chiedere una fetta sempre più grossa della ricchezza prodotta.
Certo, in qualche modo, questo processo ha permesso una crescita quantitativa del prodotto mondiale; ma, se guardiamo, nelle pieghe dello sviluppo, qual è la qualità della vita delle diverse popolazioni, ci accorgiamo che la crescita è spesso fondata su aspetti contraddittori e, come sempre è successo in passato, urge procedere verso un miglioramento generalizzato delle condizioni di lavoro e di vita, un maggior rispetto per l'ambiente che ci circonda, una maggiore attenzione per un orientamento dello sviluppo.
Quello che appare evidente è che, al contrario del capitale, il lavoro si presenta come un fattore produttivo non sufficientemente organizzato e le cui condizioni organizzative e di reddito variano in maniera significativa fra una nazione e l'altra e all'interno dello stesso Paese.
Certo l'emigrazione consente ad un singolo lavoratore di cercare le condizioni migliori in un altro paese; ma, questo processo è personalmente molto più impegnativo rispetto a quello di un capitalista, che cerca nel mondo la maggiore redditività per il proprio investimento finanziario.
All'interno degli stessi Paesi occidentali, il mondo del lavoro risulta frammentato e disunito. La necessaria flessibilità produttiva, richiesta dalle aziende per competere all'interno di una globalizzazione sempre più vincolante, impone di poter disporre dell'utilizzo del fattore lavoro con duttilità sia in ingresso sia in uscita. E' poi richiesta  la possibilità del passaggio  dei lavoratori da settori o aziende in crisi a quelle più produttive,  dal pubblico al privato e viceversa., da un territorio all'altro.
Il problema che ci troviamo ad affrontare oggi ha una portata storica:
-         Come assicurare  la necessaria flessibilità e duttilità del fattore produttivo lavoro , mantenendo nel frattempo la continuità del lavoro, dei diritti e del welfare del singolo lavoratore?
-         Chi assicurerà e gestirà  la libera circolazione del lavoro secondo le esigenze del mercato senza  prevaricare i diritti del lavoratore e senza marginalizzarlo?
-         E' preferibile una gestione centralizzata dei processi o è sufficiente  un sistema articolato di ammortizzatori sociali  e di welfare?
La prima questione da risolvere è quella di assicurare alle persone la continuità del lavoro  anche se non nello stesso posto di lavoro. Quando la disoccupazione  e la precarizzazione assumono livelli tali, come in Italia e nel Sud d'Europa,  da costituire un problema complessivo di tenuta delle nostre società,  è necessario capire che il fattore lavoro deve essere gestito nella sua interezza  per garantire alla singola persona una continuità di condizioni di vita accettabili .
Nello stesso modo in cui all'inizio del Novecento  il movimento operaio e sindacale si posero l'obiettivo   di creare un fondo per le pensioni di vecchiaia  e di porre un limite concordato all'orario di lavoro settimanale; oggi, con la stessa determinazione  va sottolineato il concetto del diritto alla continuità del lavoro, alla formazione permanente  e ad una possibile crescita della mansione e della professionalità. Il singolo lavoratore deve essere seguito  durante tutta la sua vita lavorativa, potendo contare su adeguati sussidi di disoccupazione e di  adeguati centri per l'impiego che consentano il suo reinserimento. Un obiettivo di questo tipo è di natura strategica per le nostre società e pretende un  contributo di solidarietà dei singoli lavoratori , delle imprese e della fiscalità generale per la costituzione di un fondo adeguato a sostenere i costi di quest'organizzazione.
E' da riflettere se, in quest'ipotesi, non possa modificarsi il ruolo e la stessa natura giuridica  del sistema sindacale. C'è da chiedersi se non sia proprio il mondo sindacale a dover costituire l'ossatura dell'organizzazione della gestione del fattore produttivo del lavoro che non contratterà solo le condizioni del salario e del lavoro ma organizzerà anche tutta la vita lavorativa del singolo lavoratore nel suo passaggio fra periodi di occupazione, disoccupazione , formazione e reinserimento in una nuova esperienza lavorativa.
Per avere un senso ed un futuro. un progetto del genere dovrebbe avere  poi un respiro almeno europeo e costituire la saldatura del mondo del lavoro e dei produttori attorno a cui potrebbe crescere in maniera significativa l'esperienza comunitaria.
 
 
 
 
 
 

sabato 1 giugno 2013

Il partito delle riforme

Gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che ha superato il 40%, le preoccupate dichiarazioni prima del Presidente di Confindustria Squinzi e dopo del Governatore della Banca d'Italia Visco impongono a tutti un momento di riflessione e la disponibilità a mettere da parte ogni eventuale pregiudizio ed ogni difesa dei propri privilegi per renderci tutti disponibili e compartecipi del cambiamento del nostro Paese.

Senza di questo, rischiamo tutti di perdere il contatto con i paesi più sviluppati e con la stessa Europa.

La conseguenza è sotto i nostri occhi: un bilancio dello Stato pericolante, una disoccupazione a livelli insopportabili un livello inaudito di corruzione, di delinquenza organizzata e di rendita che pesano come macigni sul mondo produttivo, un progressivo impoverimento delle famiglie, la perdita di competitività delle nostre imprese, un rischio di vera e propria deindustrializzazione del nostro sistema economico   con modeste prospettive di crescita.

E' nostro dovere reagire operando su due livelli, quello interno e quello europeo.

Sul piano interno è necessario recuperare il divario di competitività crescente con i paesi europei più avanzati agendo sia sulla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro sia dando un serio impulso ai progetti di ricerca e sviluppo. La limitata innovazione delle imprese italiane negli ultimi anni ha determinato, infatti, una progressiva perdita di produttività orientando la specializzazione del nostro settore manifatturiero (che copre ca. il 16,7% del valore aggiunto lordo dell'Italia, dati 2011) verso prodotti a bassa intensità tecnologica.

Secondo quanto riportato nel recente Documento di  lavoro dei servizi della Commissione Europea-Esame approfondito per l'Italia-a norma dell'articolo 5 del regolamento (UE) n. 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici, del 10/4/2013

" La quota del valore aggiunto manifatturiero nei settori a basso o medio-basso contenuto tecnologico ammontava al 62% nel 2009, rispetto al 44% della Germania, il 59% della Francia e il 64% della Spagna… Negli ultimi vent'anni inoltre la specializzazione settoriale dell'Italia è rimasta sostanzialmente stabile (il settore ad alta tecnologia rappresentava il 6,7% del valore aggiunto lordo totale del settore manifatturiero nel 2011, rispetto al 6,5% nel 1992)" si conclude quindi che "Il modello di specializzazione dell'Italia ha esposto l'economia all'accesa concorrenza delle economie emergenti. La specializzazione dell'Italia nei prodotti a basso e medio-basso contenuto tecnologico implica un mix di prodotti per l'esportazione molto simile a quello della Cina e di altri mercati emergenti che possono beneficiare di manodopera a basso costo".

Se a tutto questo aggiungiamo un costo dell'energia mediamente superiore del 30% a quello sostenuto dai nostri competitors europei, la difficoltà del credito ed il suo costo elevato, le eccessive incombenze burocratiche, l'insufficienza delle infrastrutture, l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, l'incompleta liberalizzazione del mercato ed una lentezza della giustizia che rende difficile la certezza del credito possiamo renderci conto delle ulteriori difficoltà che gravano in Italia sul " fare impresa".

 

L'elevato costo e le difficoltà di accesso al credito sono poi uno dei problemi più importanti che occupano la vita delle aziende italiane. Il costo del denaro è inevitabilmente influenzato sia dall'aumento delle sofferenze sia dal rendimento dei titoli del debito pubblico.

Secondo quanto espresso dal Governatore Visco nella sua recente relazione annuale "Alla fine del 2012 la consistenza dei prestiti in sofferenza è salita al 7,2 per cento degli impieghi complessivi, dal 3,4 del 2007; quella degli altri crediti deteriorati al 6,3 per cento, dall'1,9. Per le imprese, il flusso delle nuove sofferenze in rapporto agli impieghi ha recentemente superato, su base annua e al netto di fattori stagionali, il 4 per cento, un livello non toccato da venti anni. "

L'aumentato livello delle sofferenze, le perdite realizzate sul valore dei titoli in portafoglio ed i nuovi criteri di Basilea tre comportano per il sistema bancario italiano la necessità di una maggiore patrimonializzazione per riprendere con la dovuta efficacia il ruolo di finanziamento del sistema delle imprese che oggi non è soddisfacente.

D'altra parte, la maggior parte delle imprese italiane, anche a causa della piccola dimensione, attinge con difficoltà ad altre forme di finanziamento della propria attività che non siano quelle bancarie.

E' stata utile a questo scopo l'azione del Fondo Centrale di garanzia e della Cassa Depositi e Prestiti che fra il 2009 e il 2012 hanno permesso quasi 60 miliardi d'intervento a favore delle piccole e medie imprese fra nuovi finanziamenti e moratorie.

Il sistema bancario italiano ha superato bene l'esame della crisi finanziaria del 2008 e gli interventi dello Stato a suo favore sono stati ben inferiori da quelli sostenuti dagli altri paesi europei. Basti pensare che, come ci spiega il Governatore Vinco nella sua relazione: "Lo scorso dicembre il sostegno dello Stato alle banche ammontava all'1,8 per cento del PIL in Germania, al 4,3 in Belgio, al 5,1 nei Paesi Bassi, al 5,5 in Spagna, al 40 in Irlanda. In Italia l'analoga quota è pari allo 0,3 per cento includendo gli interventi per il Monte dei Paschi di Siena."

Bisogna tuttavia fare di più perseguendo due obiettivi:

a)      separare il legame esistente oggi fra l'andamento del settore bancario e quello del debito pubblico

b)      Ripristinare il ruolo di finanziatore del sistema delle imprese.

Sul secondo punto bisogna che sia rafforzata la patrimonializzazione delle aziende bancarie sia capitalizzando gli utili prodotti sia aprendo la loro composizione sociale a nuovi investitori italiani ed esteri e riducendo il ruolo delle fondazioni. Un'altra strada da percorrere è rappresentata dal potenziamento del ruolo del Fondo Centrale di Garanzia e della cassa depositi e Prestiti che con il loro credito di firma possono decisamente sbloccare l'attuale pericolosa situazione di stretta creditizia impegnando in misura limitata le finanze dello Stato e consentendo un effetto moltiplicativo dei fondi stanziati. Per quanto riguarda invece il primo punto il risultato è conseguibile solo grazie ad un'azione concertata a livello europeo. Si ritiene utile a questo fine riportare ancora dei brani del testo della recente relazione del Governatore Visco: " Il progetto di unione bancaria mira a spezzare la spirale tra debito sovrano e condizioni delle banche e del credito……………………………….La creazione di un supervisore unico, imperniato nella BCE e nelle autorità nazionali, è il primo passo; va rapidamente completato da uno schema comune di risoluzione delle crisi bancarie e da un'assicurazione comune dei depositi.Vanno precisati i contorni, definiti i tempi di attuazione, del progetto di un bilancio pubblico comune dell'area dell'euro. ……………..L'istituzione di meccanismi di sostegno finanziario comuni per le riforme strutturali nei singoli paesi può fornire l'occasione per avviare il progetto ed intraprendere, in via sperimentale, l'emissione di titoli di debito congiunti."

 

Queste ultime considerazioni del Governatore Visco, unite ai suoi richiami indirizzati alle forze politiche italiane perché non pensino di poter ottenere in sede europea una deroga al tetto del deficit del 3% (, dato il continuo e previsto incremento del rapporto debito /PIL al di fuori delle condizioni del "Fiscal Compact"), pongono alla nostra attenzione il ruolo delle istituzioni europee nei confronti del processo di crescita economica del continente. Timidamente Visco parla di " emissione, in via sperimentale, di titoli di debito congiunti" per finanziare le riforme strutturali dei singoli paesi.In realtà l'unico modo di affrontare definitivamente la questione sarebbe quello di fotografare l'attuale situazione del debito dei singoli paesi europei, la cui possibile evoluzione è già definita dalle regole del fiscal compact; e presentarsi come unica entità di fronte ai mercati con la garanzia della BCE e di tutti i governi europei : Successivamente, la BCE dovrebbe a sua volta finanziare il debito dei singoli stati membri, internamente a tassi differenti ( spread all'interno di un ventaglio di oscillazione prestabilito) in base a criteri di valutazione ( rating) comunemente accettati e condivisi.

Questa misura permetterebbe di separare definitivamente il destino delle singole banche di un paese da quello delle finanze pubbliche dello stesso.Permetterebbe inoltre di rendere efficace la politica monetaria europea e di muoversi verso una parità di condizioni del credito nei confronti delle imprese di tutti i paesi membri.

Il cammino verso una maggiore integrazione europea di tipo federale non può che realizzarsi a patto di ridurre le differenze ed i vincoli rispetto all'utilizzo dei principali fattori di produzione: capitale, lavoro e tecnologia. Muoversi verso una riduzione delle differenze sul costo del denaro, sulla facilità di credito e sulla garanzia universale dei depositanti costituirebbe un passo avanti nel senso dell'integrazione. Avere la capacità di porre un limite minimo europeo ai salari ed ai diritti dei lavoratori sarebbe un altro punto importante. Incrementare il bilancio europeo, anche con il ricorso all'emissione di  titoli di debito, per finanziare centri di ricerca comuni di eccellenza, per delineare un programma di approvvigionamento comune delle fonti energetiche al fine di equipararne i costi, per realizzare una politica militare ed internazionale comune, per realizzare le più importanti infrastrutture comuni, porrebbe le basi per un governo politico federale.

Se non si faranno passi in questo senso. su quali altre basi si potrà procedere?

Le forze politiche del nostro paese si trovano impegnate su due fronti quello nazionale e quello europeo. Entrambi sono essenziali per il futuro del paese e richiedono un progetto di riforme difficili e radicali. Avremmo bisogno di un grande partito delle riforme più che di tanti movimenti di protesta e/o di protezione dei privilegi acquisiti.