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martedì 30 settembre 2014

Le modifiche dell'art.18 ed il ruolo del Sindacato

Il dibattito sul "Jobs act" rischia di concentrarsi sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come se fosse in gioco la garanzia contro le possibili discriminazioni nei confronti dei lavoratori.
Come se questo fosse il reale obiettivo delle parti in campo e ci fosse veramente qualcuno interessato ad eliminare le garanzie offerte al lavoratore contro gli abusi della discriminazione, sancite, del resto, anche dal dettato costituzionale.
D'altra parte, si ha spesso la sensazione che il reale obiettivo di una parte dei commentatori e d'alcuni esponenti delle associazioni imprenditoriali, sia quello di ottenere, attraverso lo scardinamento dell'art. 18, le condizioni per portare avanti quella svalutazione interna del costo del lavoro che, nell'impossibilità di operare sul valore della moneta, sembra costituire, a giudizio di questi, l'ultima spiaggia   per arrivare ad una ripresa della competitività delle nostre aziende e dell'occupazione
 
Sicuramente, avere a disposizione una risorsa lavoro poco costosa è uno stimolo ad acquisirla.
Allo stesso modo, un imprenditore si preoccuperà sempre di poter disporre di risorse finanziarie a buon prezzo, di non avere troppi adempimenti e regole burocratiche da rispettare, perché rappresenterebbero un costo forse troppo elevato da sopportare, di avere le conoscenze, le strutture necessarie ed i macchinari opportuni per svolgere la propria attività.
Le domande fondamentali che, tuttavia, qualsiasi investitore si pone sono:
1) c'è un mercato favorevole all'attività che intendo portare avanti?
E ancora
2)quali sono le attività che hanno più possibilità di successo nel mercato in cui opero?
3) chi sono i miei possibili concorrenti ?
3) qual è il mix ottimale di qualità/prezzo che devo proporre?
 
A questo punto, la scelta del punto in cui collocarsi, all'interno della catena del valore e della divisione internazionale del lavoro, diventa centrale. Moltissimi paesi hanno puntato su di un bassissimo costo della manodopera senza risultati accettabili; anzi, con fasi storiche in cui sistematicamente il divario verso paesi più sviluppati si è allargato.
E' quindi certamente importante il costo della risorsa umana e di tutti gli altri fattori di produzione; ma, mettendolo in rapporto alla merce od al servizio d'alta qualità che vogliamo proporre.
Tutto questo, puntando sul fatto che la nostra merce sia nella posizione più favorevole possibile all'interno del rapporto internazionale di scambio con altri prodotti/servizi.
Essere al centro dei settori strategici è la condizione che può consentire, infatti, una crescita stabile e duratura delle condizioni di vita e dell'occupazione; dove la ricerca e l'innovazione svolgono un ruolo centrale e dove, per essere vincenti nel mercato, occorre realizzare un mix virtuoso fra miglior prodotto/servizio e miglior prezzo.
 
Qui, il ventaglio d'opzioni diventa enorme e le scelte sono essenzialmente di natura politica.
Dove vogliamo posizionarci? Quale ruolo vogliamo occupare all'interno dell'attuale divisione internazionale del lavoro? Che passi dobbiamo fare ?
 
Su questi argomenti e sul ruolo del "coraggio " e dell'"intelligenza"d'impresa   suggerisco la lettura del bell'articolo di R. Prodi dal titolo " cercasi angeli con coraggio e senso del futuro"apparso sul Messaggero del 28 settembre c.a.
Ma, torniamo al dibattito sull'art. 18, sulla possibilità del licenziamento economico, sugli ammortizzatori sociali ed il contratto di ricollocamento.
Mi sembra che il punto centrale del dibattito non sia quello di affermare se sia giusto o no che il lavoratore abbia una tutela contro la discriminazione che lo reintegri nel posto di lavoro. Questo è condiviso da chiunque.
La questione che penso interessi maggiormente al mondo dell'impresa è un'altra: evitare che la protezione offerta dall'art. 18 interferisca sulla normale gestione della risorsa umana e sulle procedure dei licenziamenti per motivi economici e disciplinari.
Per quanto riguarda i motivi disciplinari, penso che si possa trovare facilmente un accordo sull'eventuale condanna ad un risarcimento economico, senza la necessità di richiedere il reintegro come nel caso della discriminazione.
Sulle conseguenze che una modifica delle norme contenute nell'art. 18 (eliminando il reintegro in caso di licenziamento economico e disciplinare) comporterebbe, rispetto al processo del licenziamento collettivo, mi sembra che la principale potrebbe essere quella di costringere il Sindacato ad assumere un ruolo completamente diverso.
In presenza di un contratto di lavoro che non prevede, nella sua struttura logica, l'indissolubilità del rapporto, l'azione sindacale non può più essere concentrata sulla difesa esclusiva dell'attuale posizione di lavoro o dell'accompagnamento del lavoratore (in caso di chiusura dell'azienda o nell'impossibilità condivisa dell'utilizzazione di tutti i lavoratori in esubero), attraverso vari ammortizzatori sociali, sino al traguardo della pensione.
Il futuro del sindacato diventa invece ormai con chiarezza quello di:
a)      assumere un ruolo di cogestione della vita aziendale ( dei suoi momenti di sviluppo e di ristrutturazione), operando per l'utilizzo più produttivo della risorsa umana e per la sua valorizzazione con la necessaria flessibilità( i contratti di secondo livello, gli interventi sulla migliore utilizzazione degli impianti ecc. vanno in questa direzione)
b)      contribuire alla costituzione e gestione di una grande fondo del lavoro che funzioni sia come ammortizzatore sociale dei disoccupati, sia come gestore dei processi di ricollocamento nel lavoro degli stessi verso impieghi più produttivi. In sostanza una partecipazione dei lavoratori e delle aziende, insieme alla fiscalità generale, per ottenere le risorse necessarie alla creazione d'ammortizzatori sociali sufficienti allo scopo ed un intervento attivo nei processi di ricollocamento ( sia come controllori dell'efficacia sia con possibile intervento diretto nella creazione di centri per l'impiego)
 
Questo mi sembra il senso della svolta in atto rappresentata dallo "Jobs act".
Un ulteriore aspetto proposto alla riflessione comune è poi quello relativo al problema del demansionamento.
Anche questo mi sembra un argomento che affronta aspetti considerati quasi intoccabili.
Da un lato non si può non essere d'accordo sulla necessaria tutela dell'esperienza acquisita, della professionalità ed anche dei diritti d'anzianità e di carriera raggiunti, oltre che dei corrispettivi economici conseguenti. Dall'altro, ognuno di noi ha esperienza della possibile rendita di posizione che, inevitabilmente, si tende ad assumere dopo aver conquistato, all'interno della struttura lavorativa, una posizione di potere o dell'obsolescenza d'alcune professionalità, non in grado di aggiornarsi o ancora della tendenza a risparmiare le proprie forze, ormai soddisfatti della carriera raggiunta. In poche parole: " il sedersi".
Personalmente, non vedo particolari controindicazioni teoriche sul possibile demansionamento; tuttavia, poiché le sue conseguenze investono persone in carne ed ossa, esigenze, storie e profili professionali, ritengo che si debba anche tenere in dovuto conto il rispetto della persona che si ha di fronte sia dal punto di vista professionale che relativamente ai corrispettivi economici. Non si può pertanto ipotizzare   un demansionamento che comporti la discesa di più di un livello professionale di carriera, nell'arco di un periodo di tempo sufficientemente lungo ( tra i cinque e i dieci anni). Dal punto di vista economico invece non si dovrebbe procedere ad alcuna riduzione dello stipendio. Si dovrebbe considerare il corrispettivo come un " ad personam".
Questo concetto, per poter essere praticato, ha bisogno tuttavia di una variazione contemporanea della struttura dei corrispettivi, con un diverso rapporto, rispetto ad oggi, fra una parte fissa ed una parte variabile legata al conseguimento degli obiettivi/ risultati. Se, in sostanza, la parte variabile della retribuzione avesse un peso significativo (ca. 25/30%) non sarebbe indifferente per il lavoratore produrre una prestazione adeguata ad ottenerla e pertanto, pur non penalizzato nella parte fissa, le minori opportunità di ottenere una parte variabile significativa (da legare alla mansione ricoperta) lo motiverebbero ad evitare un possibile demansionamento.
Per concludere, mi sembra che la svolta introdotta dallo "Jobs act" rappresenti un mutamento significativo verso un sistema che coniughi la richiesta di una maggiore produttività del sistema alla flessibilità della forza lavoro, pur nella sicurezza della continuità del reddito e delle condizioni di vita del lavoratore.
E' una sfida che non può risolversi con un semplice decreto; ma, comporta l'adeguamento delle mentalità, dell'atteggiamento delle associazioni datoriali e dei lavoratori, oltre ad un diverso utilizzo degli ammortizzatori sociali.
E' sufficiente per una ripresa dell'occupazione ?No! Non credo.
E' una delle condizioni necessarie ma non sufficienti.Tante altre variabili devono entrare in gioco.