Quello che si tiene in questi giorni è
un congresso del più grande sindacato italiano, la cui importanza, forse, sarà
apprezzata solo tra qualche tempo, come tutti i principali avvenimenti del
periodo che stiamo vivendo.
L’Italia sembra iniziare un faticoso
cammino verso l’uscita dalla più grave crisi economica del dopoguerra, che
lascia, il nostro Paese con un’immagine di disuguaglianza, illegalità e scarsa
competitività, unite ad una crisi generale della rappresentanza, che gravano
come macigni sul nostro futuro.
Tutto questo non poteva non essere al
centro del dibattito congressuale della CGIL e della relazione dl suo segretario.
La signora Camusso apre il suo
intervento rimarcando, giustamente, come non vi sia nessuna possibilità di
sviluppo della nostra società se non puntando sul “lavoro, come fattore di
crescita”.
Il lavoro, il suo valore trainante, la
sua crescita qualitativa e produttiva, ottenuta grazie all’innovazione ed allo
sviluppo delle competenze, sono la ricchezza fondamentale di una società che
deve, inoltre, avere il coraggio di saper orientare lo sviluppo partendo dai
bisogni sociali, dall’equilibrio generale con l’ambiente che la circonda.
E’ questa una sottolineatura utile ed
importante che traspare con convinzione da tutta la relazione e che non
possiamo non condividere.
Quello che sembra, invece, meno
convincente è il ricondurre l’attuale quadro di riferimento europeo, con le
difficoltà implicite, ad una politica consapevolmente indirizzata alla
massimizzazione del profitto finanziario rispetto a quello d’impresa, ad un
attacco ai diritti dei lavoratori ed allo stesso welfare.
Si dice:
“Se non cambia il modello, l’uscita dalla crisi sarà
pregiudicata dall’ulteriore svalorizzazione del lavoro: perdita di qualità del
sistema, della sua competitività, della sua produttività, soprattutto perdita
di dignità e libertà delle persone. È il campionario del liberismo, quello
prodotto dall’austerità nell’Europa della crisi, il taglio alle politiche
pubbliche, i compiti a casa e il mantra del debito pubblico. Un approccio alla
crisi che ha cancellato il lavoro come fattore di crescita. Un processo
caratterizzato culturalmente dalla teorizzazione della diseguaglianza, del
welfare come costo. “
Ed ancora:
“Ora l’appuntamento è il cambio dei trattati
a partire dal fiscal compact, i trattati possono essere ricontrattati, non può
esserci la stessa risposta nella crisi come nella crescita.
Ricontrattazione, unità fiscale e bancaria sono le
necessità di governo della moneta unica, insieme al primato delle istituzioni
elettive. Un primo segno importante è l’individuazione del Presidente della
Commissione, vogliamo sia la premessa di una nuova stagione.
Torniamo a sottolineare che un’altra via per l’Europa
c’è, quella della mutualizzazione del debito, con un vantaggio distribuito a
tutti i Paesi, garantibile, che rappresenta anche la “pulizia” del mercato
secondario dei titoli e libera risorse che si devono vincolare agli
investimenti. Il lavoro è l’indicatore a cui riferirsi: il 12,7% di
disoccupazione e con il 42,7% di disoccupazione giovanile sono i dati della
sconfitta del sistema e delle scelte da cui ripartire.
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l’austerità europea ha praticato l’idea
che le riforme strutturali – ovvero ulteriori liberalizzazioni del mercato del
lavoro - determinerebbero la ripresa degli investimenti da parte delle imprese.
…………………………………… È la ripetizione di una logica ormai ventennale, di leggi che
hanno determinato la cancellazione dell’innovazione; la svalutazione
competitiva è stata sostituita dalla svalutazione dei salari, dall’incertezza
del lavoro, dalla sua compressione, della precarietà.
È lo spostamento dei profitti dagli investimenti alla
finanziarizzazione, con uno scadimento della qualità competitiva e produttiva
del sistema anche d’impresa. “
C’è molto di vero in quanto viene detto,
soprattutto, che la svalutazione interna dei salari e del costo del lavoro
possano costituire una forte tentazione allo spostamento verso produzioni ad
alta intensità di contenuto di lavoro semplice e quindi ad un progressivo
mancato investimento nell’innovazione, con la conseguente perdita di
competitività strategica del sistema economico, nel medio periodo. E’ qualcosa
che si osserva sistematicamente, ad esempio, in situazioni di sottosviluppo.
D’altra parte, però, una politica che punti sull’innovazione e la competitività
non può non considerare attentamente gli indicatori della produttività del
lavoro e del costo comparato con gli altri paesi competitori.
Qui, la critica alla ricerca della
flessibilità del lavoro, come aspetto di una svalutazione interna competitiva,
richiede un approfondimento perché non deve diventare la negazione della
necessità, invece, di assicurare l’indispensabile flessibilità ed indirizzo
delle risorse umane verso il loro impiego più produttivo.
Anche il corretto richiamo all’indice di
disoccupazione, come variabile guida fondamentale per valutare l’efficacia
della politica europea, si scontra con la necessaria considerazione dei reali
fattori d’ostacolo per l’adozione di politiche comuni del debito o
monetariamente espansive.Se continuiamo ad essere dell’opinione che la mancata
mutualizzazione del debito dei singoli stati membri, gli obblighi del fiscal
compact, le difficoltà che s’incontrano nel percorso dell’unità fiscale e
politica dell’Europa siano aspetti di una politica liberista, asservita agli
interessi della finanza e tesa ad un maggiore sfruttamento del lavoro, non ci
rendiamo conto del peso che invece hanno le diversità e i singoli interessi
nazionali in gioco e rischiamo di fare proposte di difficile realizzazione. La
moneta unica è certamente un vincolo alle politiche nazionali d’indebitamento
ed impedisce agli stati membri di utilizzare il quantitative easing per
finanziare il proprio debito; ma, è anche vero che, grazie all’introduzione
dell’euro, si stanno evitando delle guerre valutarie interne all’area e che
l’inflazione è stata ampiamente tenuta sotto controllo, con risparmi importanti
sul costo del servizio del debito fino alo scoppio della crisi finanziaria del
2008. E’ corretto, tuttavia, far notare quello che è l’altro lato della
medaglia: la paura dell’insostenibilità del debito d’alcuni paesi membri e che
una forte politica di quantitative easing della BCE, a sostegno diretto degli
stessi, potesse indurre questi paesi all’azzardo morale, innescando inoltre un
processo d’inflazione nell’intera area ben superiore all’obiettivo
istituzionale del 2%, ha paralizzato le politiche europee. indirizzandole verso
un’austerità impotente di cui tutti paghiamo le conseguenze. Le condizioni del
mercato finanziario mondiale oggi dovrebbero indurre la BCE ad una maggiore
libertà d’azione, sia per il basso livello dell’indice dei prezzi, sia per
l’eccessivo valore dell’euro nei confronti del dollaro e i recenti annunci di
possibili interventi, anche “ non convenzionali”, sembrano andare in questa
direzione. La questione più delicata è, tuttavia, fare in modo che i capitali
possano finanziare il sistema produttivo europeo senza passare per un
rifinanziamento nazionale dei singoli stati membri. Questo proprio per evitare
la possibile assenza di prudenza delle politiche nazionali e la mancata
assunzione di responsabilità.Non si può in ogni caso, pertanto, ignorare la
necessità di condurre una serrata analisi delle caratteristiche del nostro
Paese e dei limiti che ne inficiano lo sviluppo.
Tornando sul terreno del lavoro, sembra
che la relazione della Camusso faccia una significativa apertura per
l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a garanzie progressive,
sollecitando altresì una significativa riduzione del ventaglio dei contratti
atipici.:
“Vi è la necessità di fermare la deriva
precarizzatrice del mercato del lavoro.
Per questo ribadiamo, lavoriamo sulla semplificazione,
si faccia davvero un contratto unico a tutele crescenti, la mediazione giusta e
positiva tra flessibilizzazione contrattata e certezze per i lavoratori.Discutiamo
tempi e certezze antidiscriminatorie.Insieme al contratto unico, altre 3 forme:
il contratto a termine causale, per stagionalità e sostituzioni, la
somministrazione e l’apprendistato. Altre forme vanno ricondotte, qualora
necessario, al lavoro veramente autonomo di cui vanno definiti i diritti
universali, in questo senso va letto molto positivamente che si cominci dalle
norme di tutela universale della maternità. E completezza vorrebbe che sia
l’occasione per l’abolizione della Bossi-Fini e la costruzione di una legge
positiva sugli ingressi e sulle regole.”
Questa mi sembra un’indicazione da non
far cadere e da cogliere con l’immediata introduzione, anche con norma
provvisoria come suggeriva il Sen Ichino, di un contratto a tempo indeterminato
con la possibilità di scioglimento, nel primo triennio, ad un costo di
separazione condizionato all’anzianità di servizio.
L’introduzione della necessaria
flessibilità sul lavoro al fine di determinare la mobilità della risorsa lavoro
verso gli impieghi più produttivi e la valorizzazione delle competenze
registrerà, tuttavia, sempre l’opposizione delle organizzazioni dei lavoratori
e della maggioranza della popolazione se non verranno predisposti degli
adeguati ammortizzatori sociali, atti a garantire la massima sicurezza per il
singolo lavoratore e la sua famiglia. La relazione della Camusso continua a
sottolineare l’importanza strategica dell’istituto della Cassa Integrazione;
ma, apre ad un’indennità di disoccupazione generale per tutti, a cui si
potrebbe sacrificare probabilmente almeno la Cassa in deroga.
L’impressione è che, nel mondo attuale
globalizzato, la grande sfida che abbiamo davanti è quella di mantenere le
conquiste storiche del welfare e del lavoro, riuscendo a adeguarle alle nuove
necessità. Non posiamo più pensare di salvaguardare il futuro del lavoratore
mantenendolo legato al suo attuale posto di lavoro; ma, tutelandolo, durante il
possibile cambiamento, sino al raggiungimento della pensione. All’interno di
questo quadro, la presenza di un’indennità di disoccupazione universale, da
modulare adeguatamente, ed unita sia alla formazione permanente, sia ad un
contratto di ricollocamento, costituisce forse una delle sfide più importanti
ed assume una valenza storica paragonabile a quella che rappresentò
l’introduzione del sussidio di vecchiaia.
Il Sindacato dovrebbe assumere un ruolo
guida in questa battaglia e su queste posizioni rinsaldare il fronte
complessivo del lavoro diviso in un pericoloso dualismo generazionale, che è
anche un dualismo di diritti, di garanzie e di futuro.
In ultimo, dispiace rilevare che sul
piano fiscale, oltre a ribadire una necessaria tassazione patrimoniale tesa a
riequilibrare l’eccessiva disuguaglianza delle ricchezze, il sindacato resti
paralizzato, nelle sue proposte, dalla pur presente problematica dell’evasione
fiscale.
Si pensa forse che in presenza di
un’illegalità diffusa, che falsa i reali dati reddituali, sia improponibile una
maggiore progressività sui redditi?
Eppure, le sproporzioni sono evidenti ed
intollerabili!
Da più parti, in assenza di una proposta
organica, ci si scaglia contro questo o quell’altro settore/categoria per
denunciarne l’eccessiva remunerazione e il privilegio.
Assumere in proprio la battaglia per una
maggiore imposizione fiscale progressiva su tutti i rediti superiori a 70.000
euro sarebbe, da parte del sindacato, una legittima impresa. Avrebbe sia
l’effetto di reperire, in maniera stabile, risorse per la crescita e per il
finanziamento dell’indennità di disoccupazione, sia l’effetto di dissuasione
verso le remunerazioni eccessive.
Esempi illustri non mancano: durante il
New Deal, Roosevelt arrivò all’applicazione d’aliquote dell’80% e recentemente
Hollande in Francia ha vinto le elezioni promettendo l’applicazione d’aliquote
del 75%.