La vittoria di Trump
alle elezioni presidenziali americane può essere vista come una risposta
organica da destra ai cambiamenti ed alle problematiche che le nostre società
si trovano ad affrontare come conseguenza di un aumento delle disuguaglianze e
di un’estesa ed importante globalizzazione, che ha comportato un’ampia
liberalizzazione del movimento delle merci, dei capitali, del lavoro e quindi
delle persone.
E’ anche, tuttavia,
la sconfitta di una parte dominante della sinistra che non è riuscita a coniugare lo sviluppo e la crescita
economica con un adeguato sostegno e gestione delle paure e delle sofferenze
degli esclusi , dei marginali e di tutti coloro che subiscono il peso del
cambiamento.
Gli equilibri
internazionali sono soggetti ad una fase di cambiamento importante che comporta
il riassetto d’intere aree, non privo di forti tensioni militari e dalla
ricomparsa del terrorismo.
All’interno delle
nostre società, ci confrontiamo con movimenti migratori che richiedono
un’integrazione culturale e lavorativa di queste persone ma che mettono in
discussione a volte parte delle nostre convinzioni, della nostra cultura, le
stesse conquiste sociali fin qui realizzate.
D’altra parte,
l’incapacità di una loro gestione organizzata ed organica comporta un forte
disagio sul lavoro e nei quartieri di residenza, specialmente per le persone
meno abbienti, oltre che l’aumento di un utilizzo di queste energie e risorse
umane in occupazioni ai limiti della marginalità e dell’illegalità.
La circolarità ed il
movimento dei capitali verso il migliore rendimento hanno portato a grandi
fenomeni di delocalizzazione delle produzioni che, se hanno avvantaggiato i
paesi più poveri, hanno contemporaneamente rappresentato una perdita immediata
di lavoro per le maestranze oggetto del trasferimento produttivo, in attesa di
una loro non sempre facile ricollocazione nel mercato del lavoro.
La concorrenza di
merci, che arrivano sui nostri mercati a prezzi molto più bassi di quelli delle
produzioni locali, mette poi in ginocchio diversi settori produttivi e piccole
aziende, costrette a chiudere o tentare una profonda ristrutturazione.
Chi paga in termini
di preoccupazione per l’avvenire sono forse i ceti popolari e quel ceto medio
che, fino agli anni ’60, aveva visto migliorare costantemente le prospettive di
benessere.
I settori a
tecnologia avanzata, il capitale finanziario, le professioni di grado più
elevato hanno invece potuto utilizzare positivamente la realtà globalizzata,
incrementando ulteriormente il proprio mercato di riferimento e ottenendo una
maggiore remuneratività delle proprie prestazioni o delle proprie rendite di
posizione o finanziarie.
In
qualche modo, le conseguenze sono state diversificate sia sul piano della
divisione internazionale del lavoro sia sul piano interno con un aumento delle
disuguaglianze, del peso dei margini della finanza rispetto al capitale
produttivo, con una crisi delle prospettive del futuro e della convivenza
sociale.
La forte disoccupazione, che ha tormentato
gli anni della crisi finanziaria a partire dal 2007, la discontinuità e precarietà
del rapporto di lavoro, il timore della prospettiva di una stagnazione
secolare, l’aumento delle disuguaglianze sociali e della distribuzione della
ricchezza, la difficoltà di rapporto e d’integrazione di masse enorme di
migranti, rendono difficile l’assetto e lo sviluppo delle nostre società.
E’
questo il quadro all’interno di cui si colloca lo scontro fra le
risposte della destra e della sinistra.
Mentre la destra
accentua la dimensione nazionalistica e protettiva per cavalcare la paura del
nuovo e del diverso, resa urgente dal malessere vissuto da parte della
popolazione di fronte alle conseguenze negative di una mancata gestione dei
processi, dall’altra una prospettiva di sinistra non può essere culturalmente
subalterna ad un’impostazione puramente liberista ma deve ritrovare nella sua
storia e in una capacità nuova d’elaborazione culturale una risposta
convincente alla disperazione ed all’insofferenza delle persone.
L’importanza
dell’azione pubblica, nei confronti della quale, a causa di anni di mala
politica, di parassitismo e cattiva amministrazione, la gente ha sviluppato una
reazione di sfiducia, va recuperata.
Va riconsiderato un
ruolo equilibratore dello Stato recuperando il senso della solidarietà ed il
primato della politica sull’economia, come espressione del bene complessivo
della comunità.
Bisogna quindi,
assolutamente, introdurre degli importanti ammortizzatori sociali che mitighino
le conseguenze della globalizzazione, spostino risorse dalla finanza alla
produzione nazionale, dalla rendita al lavoro, riducano le disuguaglianze,
creino occasioni di crescita e di occupazione per tutti, diano un’indicazione
condivisa sui criteri di uno sviluppo compatibile con l’ambiente in cui
viviamo.
Il ruolo
dell'intervento dello Stato nell'economia è di nuovo fondamentale come avvenne
democraticamente nel New Deal e come sempre più esponenti progressisti
cominciano a riscoprire.Da Sanders e Corbyn fino ad alcune dichiarazioni del
sempre attento e lucido Romano Prodi ma anche di Enrico Rossi all’interno del
PD o dello stesso Scalfari che nei suoi articoli auspica una maggiore
progressività fiscale sui redditi elevati.
E' importante che
l'iniziativa pubblica provveda a lanciare grandi progetti produttivi che
impieghino direttamente disoccupati di lunga durata e migranti insieme per
produrre ricchezza e servizi per tutti.
Non si tratta di
ritornare ad invocare un Socialismo o addirittura un Comunismo al di fuori del
tempo e con i limiti evidenti che la storia ci ha mostrato; ma di ritrovare il
senso di solidarietà ed un ruolo di equilibrio dell’intervento dello Stato
nell’economia, come espressione del bene comune, reinventando il nostro futuro.
Un ulteriore
problema da considerare è come si possano realizzare ammortizzatori sociali
verso quei settori produttivi che subiscono una concorrenza tale dall'estero da
finire per soccombere; mentre, al contrario, possono essere ritenuti
socialmente importanti o strategicamente rilevanti.
Da un lato è
normale che alcune produzioni vengano dimesse perché non più convenienti; ma,
dall'altro, alcune realtà vanno comunque mantenute per assicurare un equilibrio
del sistema Italia. Tutto questo senza ricorrere alla guerra commerciale dei
dazi, che è la risposta nazionalistica della destra; ma, neanche evitando il
problema.
E possibile che una
strada da seguire sia quella di porre a carico della collettività parte del
danno.
In qualche caso
nazionalizzando, in altri assumendo centralmente la distribuzione dei prodotti
e, di fatto, socializzando parzialmente, con l’acquisto dai produttori a prezzo
politico, la possibile perdita
economica di settori non più in grado di restare sul mercato ma di cui non
possiamo fare a meno. Questo dovrebbe consentire di porre contemporaneamente in
atto una politica di ristrutturazione e razionalizzazione di questi settori per
permettere il loro graduale reinserimento autonomo nel mercato e la
ricollocazione di tutte le risorse in esubero.
Il protezionismo ed
il nazionalismo sono stati, già nella prima parte del novecento, delle risposte
adottate in molti paesi alla crisi finanziaria del 1929 ed alla grande
depressione economica successiva. La guerra commerciale che ne è seguita si è
poi trasformata in confronto armato.
Tutto questo non è
inevitabile; così come non è necessario che si risponda alla diversità con la
paura e la condanna.
Possiamo provare a
confrontarci e a sperimentare che spesso l’innovazione e le grandi civiltà
nascono dall’incontro e dalla successiva rielaborazione delle diverse culture e
tradizioni.