Pagine

sabato 26 maggio 2012

Una storia esemplare

Inaspettatamente,  qualche giorno fa, il Presidente del Consiglio ha comunicato l'informazione della disponibilità di risorse rivenienti dai fondi strutturali europei tali da permettere nuova occupazione per  almeno 128.000 giovani. Se a queste risorse aggiungessimo quelle rivenienti dalla lotta all'evasione fiscale  e dallo spending review, potremmo agevolmente pensare ad almeno un raddoppio della cifra.250.000 nuovi posti di lavoro sarebbero un passo importante verso una riduzione della disoccupazione giovanile, che ha superato ormai il 30% e che nel Sud dell'Italia assume livelli ancora più gravi.

Queste risorse possono essere utilizzate per un'assunzione diretta di questi ragazzi da parte dello Stato, dando loro   uno sbocco immediato.Il processo   può inoltre rappresentare, se ben gestito, una " storia esemplare"  che può avere anche un impatto  di modernizzazione e di cambiamento sull'intera Pubblica Amministrazione, migliorandone il grado complessivo d'efficienza. Non è per niente necessario che l'occupazione di questi giovani avvenga creando strutture apposite. La ricerca del modo più produttivo di occuparli va affidata  alla struttura pubblica già esistente, che può essere in grado di trovare il modo migliore di gestire il processo.

L'importante è che la gestione di questi lavoratori sia separata, risponda a logiche diverse e segua un percorso di responsabilità autonomo. La gestione delle attività e delle carriere di questi giovani vanno gestite a livello centrale, sottraendole completamente dal potere gestionale delle locali direzioni del personale e dall'amministrazione locale, per rispondere in ogni caso ad un progetto nazionale  con tappe  ben individuate.

I nuovi lavoratori assunti all'interno di questo progetto dovrebbero, infatti, essere assistiti da un contratto a tempo indeterminato con i seguenti obblighi e caratteristiche:

- età non superiore ai 35 anni all'atto d'ingresso nel lavoro

- obbligo d'accettazione, per il primo periodo (un anno?)   di qualsiasi lavoro  a tempo indeterminato offerto da un'azienda privata.

- accettazione di qualsiasi diverso utilizzo sia sul piano settoriale che territoriale all'interno dell'amministrazione pubblica

- avere una remunerazione, lorda di 15.000 euro di base cui aggiungere un premio di produzione annuo di € 6.000 in caso di raggiungimento del 120% degli obiettivi fissati; di € 4.500  in caso di raggiungimento dl 100% degli obiettivi e € 3000 in caso di raggiungimento dell'80% degli obiettivi fissati.In caso di non raggiungimento dell'80% non sarà corrisposto alcun premio di produzione. Si propone inoltre che la tassazione su questi premi sia stabilita nella misura del  20% fisso.

Per quanto riguarda poi la predisposizione degli obiettivi , questo è un aspetto essenziale sia per dare trasparenza  sia per evitare arbitrii ed una gestione puramente assistenziale. Determinare degli obiettivi è una delle operazioni fondamentali di qualsiasi programmazione aziendale. Quest'attività può e deve coinvolgere tutti i settori, da quelli direttamente produttivi a quelli di consulenza o di servizio o anche i centri di costo.

Un'esperienza di questo tipo non potrebbe che mettere in discussione, con il suo successo, le attività ordinarie ed i metodi di gestione del personale della rimanente  amministrazione pubblica e costituirebbe motivo di crescita e di cambiamento.

In sostanza, in questo momento particolare della situazione del nostro Paese, sono da mettere in aperta competizione i nuovi giovani occupati su descritti con la struttura lavorativa esistente della Pubblica Amministrazione.

Contemporaneamente,   sarebbe necessario investire tutto il settore pubblico con un processo di profonda ristrutturazione  fondato sui seguenti punti:

1) assicurare la piena mobilità territoriale del lavoro compatibilmente con una riduzione della stessa in base all'età e all'anzianità di servizio (da ridiscutere rispetto alla normativa attuale). Considerando in questo caso  i vantaggi e le prestazioni aggiuntive per chi accetta.

2) piena mobilità settoriale. Anche in questo caso privilegiando le situazioni incentivanti

3)Porre un momento temporale preciso a partire dal quale tutte le remunerazioni sono ridisegnate fra una parte fissa ed una variabile come premio di produzione di carattere strettamente individuale o in alcuni casi legata ad una situazione o ufficio di cui si vuole sviluppare per intero la prestazione. Da quel momento tutti i nuovi assunti dovrebbero avere una remunerazione con i parametri indicati suesposti.

4) modificare le carriere mettendo come precondizione il raggiungimento degli obiettivi prefissati per almeno i tre anni consecutivi precedenti alla promozione.

5) rimane il problema dell'introduzione della nuova forma retributiva per coloro che sono già in servizio. E' una questione di soldi. Le incentivazioni previste attualmente dovrebbero cessare d'essere universali ma destinate al raggiungimento degli obiettivi individuali .In base alle disponibilità si può valutare in che misura si può offrire su base volontaria l'accettazione della modifica della retribuzione in previsione di una leggera riduzione del fisso ma di un aumento complessivo su base variabile. Un'altra incentivazione può essere costituita dal fatto di non consentire a nessuno di coloro che non ha aderito ad una proposta di ristrutturazione della retribuzione la possibilità di miglioramenti di carriera.

Abbiamo bisogno per i nostri giovani e per l'Italia tutta di una "storia esemplare" che ci permetta, vivendola, di crescere e trasformarci in una società più moderna e dinamica.

 

 

 

giovedì 17 maggio 2012

Un milione di posti di lavoro

Il Ventesimo Secolo ci ha lasciato una lezione fondamentale circa la necessità di controllare i meccanismi economici del capitalismo che, inevitabilmente, ci conducono verso la concentrazione delle ricchezze ed il monopolio.

La tendenza del capitalismo, inoltre, ad ottenere ricchezza dal denaro scivola con facilità verso la speculazione e la rendita finanziaria, che indeboliscono gradualmente la struttura produttiva della società.

Le bolle speculative, che via via si sono succedute nel corso degli anni, hanno più volte, infatti, messo a dura prova la resistenza delle nazioni, provocando gravi crisi economiche che hanno bruciato in pochi giorni enormi ricchezze, facendo perdere risparmi accumulati negli anni.Nel '900, l'azione degli Stati nella regolamentazione e limitazione delle attività economiche è stata essenziale.

Questo intervento si è realizzato nei diversi paesi assumendo forme differenti ed utilizzando ideologie spesso contrastanti ma unite nell'obiettivo della regolazione necessaria delle forze del mercato. Pensiamo all'azione del New Deal   di Roosevelt negli Stati Uniti d'America o quella del Regime Sovietico in Russia o in Cina. L'azione delle socialdemocrazie nel nord dell'Europa.  .La stessa azione del Fascismo in Italia e del Nazionalsocialismo in Germania assolvono questo compito: la regolazione delle disfunzioni del mercato capitalista per opera dello Stato. L'intervento dello Stato nell'economia.

Tutta la nostra storia del dopoguerra è improntata all'intervento dello Stato nell'indirizzo e regolazione della vita economica.Se da un lato si è cercato di assicurare il regolare svolgimento delle attività economiche, scongiurando il pericolo del monopolio, dall'altro lo Stato è intervenuto con il compito di dare stimolo ed indirizzo allo sviluppo economico cercando, grazie alla politica fiscale, di operare, allo stesso tempo, verso una riduzione delle differenze sociali e territoriali.

Il mondo occidentale, subito dopo la grande depressione della prima metà del '900, decise altresì di regolare opportunamente la finanza separando le attività delle banche d'investimento da quelle di deposito al fine di proteggere strategicamente il risparmio. Dovremmo ritornare ad ascoltare quelle voci del secolo scorso ed intervenire di nuovo con decisione sul sistema finanziario mondiale per ridurre le attività speculative e mettere al sicuro le sudate riserve dei piccoli risparmiatori.

Se da un lato riconosciamo la necessità di limitare gli effetti corrosivi del libero mercato, per quanto riguarda il problema della concorrenza e della finanza, abbiamo forse tralasciato di ricordare il carattere strutturale di un altro problema che accompagna il modo di produzione capitalistico: la costante presenza di una percentuale della popolazione disoccupata ed inoccupata.

Questo aspetto costituisce un fattore di disagio sociale e rappresenta lo spreco di uno dei fondamentali fattori di produzione. Così come il capitale, anche il lavoro andrebbe costantemente e totalmente utilizzato e quando questo non avviene siamo in presenza di una disfunzione nel funzionamento del sistema economico di una società.

Nei momenti di profonda crisi economica sociale si può osservare come, in passato, diversi sistemi politici abbiamo dato allo Stato il compito di datore di lavoro d'ultima istanza. Accadde con sistematicità all'interno dei sistemi sovietici   ma anche all'interno dei regimi fascisti e nazisti. L'esperienza fu anche essenziale nell'ambito del New Deal americano.

L'utilizzo pieno del fattore lavoro ha una rilevanza sociale determinante perché si riferisce alla piena partecipazione del cittadino alla società di cui fa parte. La nostra Costituzione sancisce questo principio nell'art.4 che recita:

"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."

E' questo forse l'aspetto più bello della proposta socialista insieme a quella di mettere al primo posto dello sviluppo di una società il benessere dei ceti popolari. Non esiste dignità del cittadino senza il lavoro e obiettivo di ogni democrazia dovrebbe essere appunto quello di garantire la piena occupazione ed intervenire con la struttura della Pubblica Amministrazione come datore di ultima istanza quando il sistema economico "inceppato" non riesce momentaneamente a produrre lavoro..

Alla luce di quanto stiamo esaminando la copertura finanziaria dell'operazione rappresenta un falso problema e può essere fuorviante rispetto alla questione decisiva rappresentata dall'esigenza di assicurare a tutti i cittadini la dignità fondamentale necessaria per partecipare a pieno titolo al consesso sociale.

La stessa esistenza dello Stato nasce dalla necessità di assolvere alcune funzioni fondamentali non demandabili e quella del lavoro è fra queste.

Per questo motivo e sulla base di queste premesse, va sottolineata l'importanza della recente proposta di Luciano Gallino tesa a far sì che, nell'attuale situazione italiana, il nostro Governo riproponga l'esperienza della  Works Progress Administration del New Deal americano con l'obiettivo di realizzare un milione di nuovi posti di lavoro.

Occorre in sostanza che lo Stato operi come datore di lavoro di ultima istanza, assumendo direttamente il maggior numero di persone.

Le modalità descritte da Gallino sono sostanzialmente condivisibili e comunque perfezionabili ma costituirebbero una ventata di novità e di speranza  all'interno di  quel clima asfittico e  privo di certezze che affligge le nuove generazioni.

La proposta trova la sua collocazione all'interno del dibattito sull'introduzione in Italia  del reddito di solidarietà attiva e di efficaci ammortizzatori sociali.

Se riuscissimo ad unire a questa proposta una definitiva riforma del lavoro  che vada nel senso della riduzione drastica del precariato  e di un'effettiva mobilità del lavoro verso gli impieghi più produttivi, avremmo posto le basi per un mutamento più ampio della nostra società.

Le principali obiezioni sorte  nei confronti di questa ipotesi si sono particolarmente concentrate sulla  sua sostenibilità finanziaria  calcolata dallo stesso Gallino per un ammontare di ca. 25 mld annui

A questo proposito mi piacerebbe invece effettuare   alcune considerazioni  con lo scopo di far notare come non sia assolutamente  "insensato" parlare  della creazione di un milione di nuovi posti di lavoro a carico dello Stato.

Il "Fiscal Compact" da approvare  entro il gennaio 2013  da parte del Parlamento Italiano impone all'Italia  un rientro  del debito  pubblico entro i parametri del 60% del PIL  in un  arco di venti anni  con una spesa annua, calcolata allo stato attuale, di ca. 45/47 mld.

Chi ha detto che non si possa rientrare in 40 anni con un risparmio annuo tale da finanziare  il milione di posti di lavoro? Siamo certi che le motivazioni poste alla base della necessità di rientro siano così ineludibii e non dipendano dalla debolezza della costruzione europea? Non è che i problemi stanno altrove? 

Chi può escludere che, in determinati periodi, una maggiore crescita non consenta un abbattimento maggiore del rapporto del debito sul PIL tale da recuperare l'eventuale ritardo iniziale?

Perché non possiamo prevedere una spesa minore per la creazione dei posti di lavoro? Non possiamo ipotizzare un salario di massimo 700 euro con una spesa annua di ca. 15.000 euro? 

In questi giorni il PD sta per proporre una patrimoniale del valore di ca. 8 mld per ridurre il peso dell'IMU. Perché mai invece i soldi non potrebbero essere utilizzati per il lavoro?

Dall'eliminazione delle spese per la politica si potrebbero tranquillamente ottenere ca. 1/2 mld annui. Ne vogliamo parlare?

Dalla lotta all'evasione fiscale si possono ottenere almeno ca. 5 mld annui. E' plausibile?

Dallo spending review probabilmente si può recuperare qualcosa o no?

Chi l'ha detto che i servizi sanitari, scolastici ecc non possano aumentare il proprio costo nei confronti degli utenti più abbienti quando sono in ballo problemi come questo? 

Si possono  portare centinaia di altri esempi per sostenere che paradossalmente  la questione è che bisogna cambiare, in questo caso, i parametri di valutazione con cui siamo abituati a ragionare  perché il consesso sociale ha bisogno  di questo cambio di passo.

 

Il problema  non è  di natura economica, ma politica.

Cosa è meglio  fare? Non pensate  che sia dirompente, in una situazione in cui oltre il 30% dei nostri giovani è disoccupato e scoraggiato, fare una mobilitazione attorno ad un obiettivo di questo genere?

Certo, è da evitare una  creazione definitiva di posti di lavoro a carico dello Stato. Sarebbe meglio che questa proposta fosse in realtà  una via di mezzo fra un ammortizzatore sociale ed un lavoro stabile definitivo,  ponendo la clausola  che questo "lavoratore" non possa in ogni caso rifiutare qualsiasi proposta di lavoro a tempo indeterminato gli fosse offerta dal settore privato.

Resta il fatto che la proposta sembra andare in una direzione corretta.

C'è poi da riaffermare, anche  contro l'obiezione ci carattere economico,  il ruolo teorico e strategico del concetto dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza. La questione non può essere liquidata con la motivazione della mancanza della copertura finanziaria perché abbiamo visto  che il problema non è costituito dal fatto  che manchino le risorse, ma se sia giusto  o no spenderle su questo obiettivo.

Se ci mettiamo dal punto di vista della società nel suo complesso e dalla parte degli ultimi, se si inceppa il funzionamento economico  per il migliore utilizzo delle risorse disponibili (capitale, lavoro, conoscenza ecc) c'è qualcosa che non va  e lo Stato ha il DOVERE d'intervenire, anche come datore di lavoro di ultima istanza, ridefinendo la propria spesa e i propri impegni.Non è il debito pubblico o il costo interessi  ad aver bloccato da venti anni la nostra produttività  e la nostra crescita ma la finanziarizzazione dell'economia, la corruzione, la burocrazia, la concentrazione delle ricchezze, il prevalere della rendita sulla produzione ecc.ecc.

Occorrono a tutti i livelli elementi di discontinuità.

 

 

martedì 8 maggio 2012

Il vento del cambiamento

 

In tutta Europa le recenti consultazioni elettorali hanno registrato l'affermarsi di movimenti che hanno modificato l'asse del potere politico esistente. In Grecia, i partiti, che hanno avuto la responsabilità di governo negli ultimi anni, hanno subito un pesante ridimensionamento a favore di forze emergenti sia di sinistra sia d'estrema destra, accomunate da una critica profonda rispetto alla responsabilità dei precedenti governanti e ad una critica aspra rispetto agli impegni assunti nei confronti delle autorità europee e del FMI. In Francia, dopo ca. 19/20 anni, la sinistra ritorna al potere al grido d'eguaglianza e gioventù, promettendo interventi contro la finanza e i redditi più elevati e nuove politiche per la crescita. In Italia, pur in occasione di elezioni di carattere amministrativo, assistiamo alla quasi implosione dei partiti tradizionali con la sola eccezione dei candidati della sinistra, scelti attraverso il meccanismo delle primarie di coalizione, e al risultato non allineato di Palermo, dove Orlando si è messo di traverso. La grande esplosione di consensi è arrivata invece a favore del movimento cinque stelle che, in alcune situazioni particolari, ha raggiunto consensi che sfiorano il 20%. Un sondaggio presentato durante la trasmissione Ballarò mostra una preferenza possibile, alle prossime elezioni politiche,  per il movimento pari a ca. il 15% degli intervistati.

Siamo in presenza di un forte vento di cambiamento che si è alzato in tutto il continente europeo, ma che, in Italia, assume in particolare l'aspetto di una profonda contestazione dell'attività politica espressa dai partiti tradizionali e prefigura nuove forme di partecipazione dei cittadini alle istituzioni. Quello che è in crisi non è solo il modello "partito" ma anche il sistema di rappresentanza e di delega politica che conosciamo. Il cittadino ritiene, infatti, di avere degli strumenti maggiori rispetto al passato di comunicazione e di aggiornamento tali da poter partecipare in maniera diversa alla vita della "polis" e desidera pertanto non delegare più totalmente, come in passato, l'attività politica ad un corpo specializzato di professionisti privi di un adeguato confronto e controllo da parte della società civile.Tutto ciò si è rafforzato sull'onda anche degli scandali sull'utilizzo dei finanziamenti pubblici, che hanno provocato una diffusa sensazione di disagio, se non addirittura d'indignazione.

Quello che unisce questi diversi movimenti, presenti in tutto il continente europeo, sembra essere la presenza di due questioni:

1)  una voglia di democrazia  e di partecipazione  che, a partire dalla propria condizione, valuta la congruità dell'offerta politica dei partiti tradizionali e delle politiche dei governi sino ad arrivare alle problematiche connesse all'integrazione europea. Non sfugge a questa richiesta di cambiamento, come abbiamo accennato, né la classe dirigente dei partiti, né gli strumenti di rappresentanza a disposizione del cittadino e le modalità del loro utilizzo. All'interno di questo processo possiamo ritrovare in Italia le critiche alla legge elettorale, alla forma giuridica dei partiti, al finanziamento pubblico, la richiesta recente della formazione di un soggetto politico nuovo, l'affermazione ampia del movimento cinque stelle. A livello europeo questa richiesta di partecipazione e di democrazia diretta si salda con una critica alle politiche governative che sembrano eterodirette sulla base di una subordinazione alle direttive delle istituzioni europee di cui non si riconosce probabilmente la vicinanza e la democraticità.

2)           il prevalere di un processo di proletarizzazione della società che riporta in primo piano  la richiesta di eguaglianza, solidarietà e bene comune come motori dello sviluppo. Paradossalmente  tutto questo può portare alla richiesta di una maggiore spesa pubblica  e di una maggiore presenza statale nell'economia. Il periodo favorevole al neo liberismo che voleva "affamare" lo Stato per liberare risorse  per l'iniziativa privata sembra peraltro in declino.La nuova richiesta di eguaglianza  appare comunque caratterizzata dal riconoscimento del ruolo sociale della libera iniziativa mentre e di una maggiore attenzione rispetto al passato nei confronti della qualità ed efficacia della spesa pubblica. 

Queste questioni non sembrano episodiche o limitate ad esperienze locali e particolari ma radicate nei profondi cambiamenti presenti nelle nostre società; pertanto, probabilmente investiranno col vento del cambiamento il nostro panorama politico ed istituzionale.

 

 

venerdì 4 maggio 2012

Euro moneta sovrana

Da troppi anni ormai le economie dei paesi europei sono spesso prese d'assalto da attacchi speculativi, che mettono a dura prova la loro capacità d'equilibrio finanziario e pongono ai cittadini condizioni di vita sempre più difficili.Tutte le misure di risanamento, adottate per migliorare i conti pubblici, hanno inoltre un carattere depressivo che rischia di rendere le problematiche ancora più gravi e dall'esito incerto.La zona Europa è ormai entrata in recessione e non si vedono a breve dei segni di una possibile svolta. La riduzione del PIL degli stati sovrani più deboli peggiora il loro rapporto nei confronti del debito pubblico, costringendoli a manovre restrittive per realizzare un pareggio di bilancio che non è in ogni caso sufficiente quando uno dei due termini della frazione: il PIL, continua a ridursi.La gravita dei deficit di bilancio e del peggioramento del rapporto debito /PIL sono estremamente gravi nel nostro continente, poiché la sostenibilità del debito d'ogni Paese membro dipende quasi totalmente dalla volontà dei sottoscrittori. Tanto maggiore inoltre è la presenza della quota sottoscritta da investitori stranieri quanto maggiore è la dipendenza dalle loro valutazioni.Tutto questo ha una precisa origine nel fatto che l'Euro non è una moneta sovrana. I trattati europei, infatti, non hanno consentito che esistesse un organismo centrale che potesse emettere moneta con piena libertà e responsabilità in contropartita di un debito pubblico europeo facente capo ad un unico bilancio, ad un'unica politica fiscale e ad un'unità politica conseguente.Quest'incongruità è alla base di tutte le tensioni oggi esistenti. Esse partono da una base ovviamente economica. Nessuno può negare la diversa consistenza e competitività delle economie dei diversi Stati membri. Le differenze tuttavia, se gestite all'interno di uno stesso soggetto politico in un'ottica di crescita comune e di redistribuzione delle ricchezze, non costituirebbero il problema che invece assumono nella situazione attuale.La diversità esistente, in mancanza di un progetto unitario realizzato, fa sì che i singoli paesi siano valutati separatamente per quanto riguarda sia la loro capacità produttiva che il loro equilibrio finanziario. Nel caso delle economie più deboli, diventa evidente che esse non possono disporre della sovranità sulla moneta, per onorare i propri debiti, e possono oggettivamente trovarsi nella condizione del default, se il loro bilancio non è in grado di sostenere il progressivo costo del debito. I mercati sono perfettamente coscienti di questo pericolo e nei momenti di difficoltà, o quando e politiche adottate da questi paesi non sono convincenti, puntano in maniera speculativa sul peggioramento della situazione realizzando spesso enormi guadagni.E' facile a questo punto lamentarsi della loro voracità! Dovremmo molto più coerentemente lamentarci della nostra insipienza.: quella di non aver avuto la volontà di completare la formazione dell'unità politica e democratica dell'Europa assumendo un unico bilancio federale, una comune fiscalità e la piena sovranità sulla moneta. L'economia Europea è ancora troppo forte per rischiare l'indebolimento del valore dell'euro. Ciò d'altra parte avvantaggerebbe la nostra complessiva competitività e nessuno è interessato a che questo avvenga.La sovranità piena non comporterebbe pertanto rischi effettivi di svalutazione o d'inflazione incontrollata se comunque venissero mantenute delle indicazioni per una crescita prudente, che puntasse essenzialmente sull'incremento di produttività delle zone più deboli.Diversamente potrebbe succedere invece, nel caso in cui uno stato membro decidesse, in maniera autonoma, di lasciare l'euro per recuperare la propria sovranità monetaria. Quasi sicuramente, in questo caso, dovrebbe in una prima fase, subire un ridimensionamento del valore della propria moneta e sostenere delle spinte inflazionistiche elevate. Se tutto questo permettesse, tuttavia, la capacità di effettuare degli investimenti pubblici importanti per la crescita, il recupero della competitività e la ripresa dell'occupazione in tempi ragionevoli, il ciclo potrebbe invertirsi e trovare la via dello sviluppo, di cui approfittare, finalmente, per migliorare la propria struttura finanziaria e produttiva. L'ipotesi auspicabile è che le nazioni abbiano la forza di capire che, nel mondo contemporaneo, l'unità politica ed economica europea non solo è un'opportunità ma quasi una necessità per avere un peso internazionale adeguato ed un ruolo all'altezza delle nostre tradizioni.Il processo d'unità politica dovrebbe essere ampio e fondato sulla forte partecipazione democratica del cittadino alle istituzioni federali. Potrebbe essere importante avere come negli Stati Uniti d'America l'elezione diretta, da parte del popolo, del Presidente degli Stati Uniti d'Europa.