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giovedì 19 aprile 2012

Crisi dei partiti e democrazia

 

Il sistema di rappresentanza, mediato dall'attività dei partiti politici, sta attraversando, nel nostro Paese, un momento di grave difficoltà a causa della crescente insofferenza dell'elettorato nei confronti dell'attuale classe politica. Il problema, iniziato con il crescente fastidio per l'uso, per molti versi, personalistico della politica da parte del precedente capo del governo e per la continua ed esasperata conflittualità tra i partiti, è dapprima esploso con il momentaneo accantonamento dell'utilizzo di personale politico per la formazione del nuovo governo Monti ed oggi ha raggiunto il suo apice col susseguirsi delle notizie sull'uso distorto dei soldi rivenienti dal rimborso elettorale. In particolare, in questo momento, risulta particolarmente insopportabile venire a conoscenza che nonostante si sia sostanzialmente eluso quanto venne a suo tempo indicato dal referendum popolare, che aveva espresso un categorico no (ca. 90%) al finanziamento pubblico dei partiti, si sia ottenuto un rimborso d'entità ben superiore alle effettive spese sostenute (ca. 529 milioni di euro in cinque anni contro rimborsi per oltre 2,2 miliardi di euro) e che la mancanza di controlli interni abbia potuto permettere un possibile uso irregolare di queste risorse. Attendiamo con rispetto l'esito dell'azione dei magistrati; ma, il giudizio politico dell'elettorato sembra essere già ampiamente negativo. I recenti sondaggi vedono un crollo della fiducia nei partiti, un aumento ad oltre il 50% dell'intenzione di astensione al voto e ca. l'80% degli intervistati desidererebbe che i rimborsi elettorali venissero eliminati o drasticamente ridotti.La crisi di credibilità dei partiti non è tuttavia un fatto "privato" perché mette in crisi il rapporto del cittadino con la politica e le Istituzioni. La questione è di così vitale importanza che il Capo dello Stato ha sentito l'obbligo di richiamare l'attenzione sul problema e difendere la nobiltà dell'impegno politico.

E' ormai comunemente richiesto un cambiamento del sistema dei partiti che consenta una maggiore partecipazione e controllo dei cittadini sull'attività degli stessi.

Da più parti si ritiene ormai necessario che si proceda all'abolizione o per lo meno alla drastica riduzione del finanziamento pubblico, alla riforma dello stato giuridico dei partiti, in modo da consentire una più ampia responsabilità e la certificazione obbligatoria dei bilanci, alla verifica dei meccanismi di democrazia interna e di ricambio della classe dirigente.

Cosa ha portato a questo distacco dalla società civile? Eppure questi partiti hanno una vita relativamente recente. Essi sono per lo più nati in risposta alla profonda crisi già subita dal sistema politico in occasione degli scandali di " mani pulite". C'è sicuramente in Italia una questione morale che tuttavia sarebbe fuorviante interpretare solo come una questione d'illegalità. L'impressione è che molto sia legato all'incapacità di tenere il passo con i mutamenti di un mondo che, dopo la caduta del muro di Berlino, ha avviato una competizione economica e culturale a livello globale. C'è un ritardo culturale e d'interpretazione della realtà che permea larga parte dei nostri comportamenti e ci spinge verso il sottosviluppo. La corruzione sta diventando un problema endemico di questa società e la rendita di posizione prevale sulla produttività.La politica che avrebbe dovuto guidare il Paese verso un nuovo ciclo di sviluppo è invece racchiusa in se stessa incapace di concepire una proposta complessiva credibile e praticabile. E' proprio da questa incapacità che nasce in primo luogo la litigiosità, la supponenza e la frammentarietà dei vari raggruppamenti e dall'altro l'arroccamento e l'incapacità di confronto che fa sì che ogni gruppo abbia cercato in primo luogo la propria sopravivenza (che nel migliore dei casi è identificata con la difesa dei propri valori ritenuti a torto o a ragione universali). Non sfugge a questa logica né la necessità di ottenere dallo Stato i mezzi necessari per svolgere la propria attività né l'arroccamento della classe dirigente   a difesa del corpo costituito che impedisce in qualche modo una reale partecipazione popolare all'interno dei partiti. Queste preoccupazioni si riflettono in quasi tutte le regole statutarie, e sulla base di quest'ottica può essere letta la gestione dei beni mobili e immobili tramandata dai gruppi dirigenti dei partiti (via via trasformatisi storicamente) attraverso società e fondazioni varie di cui i partiti ultimi nati non hanno tuttavia il controllo.Sfugge a questa classe dirigente politica che i beni mobili e immobili sono di proprietà di tutti gli iscritti ed elettori che hanno seguito le evoluzioni politiche storiche verificatesi e che non basta essere stati a suo tempo i dirigenti di quel partito per mantenerne il diritto alla gestione.. Perché le hanno gestite in questo modo elitario? Forse per un desiderio di protezione del partito e della sua missione storica ma, in mancanza di un vero controllo democratico dal basso, hanno probabilmente prestato facilmente il fianco a comportamenti non propriamente regolari di qualcuno e non hanno permesso lo sviluppo del dibattito culturale e politico.

Oggi la parola d'ordine: "Affamare" la politica può aiutare le classi dirigenti dei partiti a rivolgere una maggiore attenzione nei confronti della base che rappresentano, costringendoli a cercarne il sostegno. La questione del controllo dei mezzi finanziari fa sì inoltre che venga adeguatamente valorizzato un percorso democratico delle decisioni e della rappresentatività sia interna che esterna.

"Affamare" la politica può favorire ancora processi di fusione organizzativa e disponibilità maggiore al superamento delle diversità non discriminanti.

Il 50% di cittadini italiani distanti dalla politica ha probabilmente bisogno d'attenzione e di partecipazione. I partiti possono ritornare a svolgere questo compito, di grande rilevanza sociale, a patto di riuscire a mettersi in discussione e comprendere che il "metodo" oggi è una questione di merito e presupposto di un processo di sviluppo della democrazia.

Solo in questo modo è possibile sperare nella formazione di una classe dirigente politica più vicina al proprio elettorato e più capace infine di affrontare le responsabilità di questo difficile momento della vita del nostro paese godendo della fiducia della società civile.

 

 

venerdì 13 aprile 2012

Un momento difficile

"Tanto tuonò che piovve" potremmo dire, ripescando dalla nostra memoria una frase sentita spesso nelle discussioni dei nostri vecchi.

Allo stesso modo, la crisi economico/finanziaria, che ci attanaglia da anni, ci ha condotto, ormai in maniera evidente, all'interno di un periodo di recessione che ci auguriamo sia il più breve possibile. E' recente la notizia di un calo della produzione industriale italiana di ca. il 6% e le previsioni di riduzione del PIL, nell'anno in corso, prefigurano dei valori fra l'uno e il due per cento.

Se aggiungiamo a tutto questo l'aumento, in valore assoluto, del debito pubblico ad oltre 1.960 miliardi di euro ed il ritorno del differenziale del tasso fra i nostri titoli BTP ed i Bund tedeschi ad oltre i 350 punti, non c'è da stare molto allegri.

Le tensioni presenti nei mercati borsistici mondiali e sui paesi più deboli dell'area euro mostrano inoltre l'incertezza degli operatori internazionali e della connessa speculazione sul futuro economico.

La ripresa americana presenta segnali di debolezza. La crescita del prodotto cinese sembra rallentare e soprattutto l'area europea sembra entrata quasi completamente in recessione.

In questi giorni, il nostro Parlamento sta discutendo l'approvazione dell'inserimento nella Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, come primo passo nella direzione della piena realizzazione del "fiscal compact", voluto fortemente dai paesi forti dell'euro con in testa la Germania.

Questo provvedimento dovrebbe consentire il definitivo controllo europeo sulla possibile dilatazione del debito pubblico dei paesi meno virtuosi, fotografando una situazione comune da cui ripartire.

Ma saremo in grado di farlo?

La domanda che nasce inevitabile è quella di capire se, dopo aver cristallizzato la situazione del debito, vi sia la volontà politica di metterlo in comune per ripartire da zero, come un'unica entità politico economica capace di assumere un ruolo internazionale competitivo all'esterno e di attuare all'interno una politica di risanamento, di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza fra i diversi Stati membri.

E' su questo progetto che il mercato finanziario esprime i suoi dubbi, attaccando, insieme alla speculazione, gli anelli più deboli della catena. La creazione di un Fondo salva stati, con una dotazione che può arrivare complessivamente al massimo a ca. 700/800 miliardi di euro, non sembra la soluzione al problema, nell'attesa di un deciso passo avanti verso l'unione politica, fiscale ed economica.

Sarebbe stato più utile accettare un ruolo della BCE come prestatore di ultima istanza, rassicurando così i mercati sulla sicurezza del rimborso dei titoli del debito pubblico di qualsiasi Stato membro dell'Unione, anche se con il rischio dell'accentuazione dell'inflazione e della perdita di valore dell'euro.

E' questa la principale preoccupazione tedesca: quella di veder svalutato l'euro (quindi il valore del proprio surplus e del livello di vita del proprio popolo), a causa di una possibile inflazione connessa ad un'eccessiva circolazione monetaria.

D'altra parte, il rischio di una svalutazione dell'euro sarebbe compensato da una maggiore competitività ed appetibilità dei prodotti europei; inoltre, non è detto che la possibile inflazione si presenti in maniera così pesante come temuto, perché la necessità d'immettere moneta sul mercato potrebbe essere inferiore al previsto in quanto gli investitori potrebbero sentirsi subito rassicurati dal nuovo ruolo svolto dalla BCE ed assestarsi su di un rendimento medio dei titoli in euro leggermente superiore al tasso d'inflazione oggi registrato nell'area.

In quest'ipotesi, potrebbe verificarsi una riduzione dello spread fra i titoli dei diversi stati membri, che potrebbe tuttavia penalizzare il rendimento di quelli più virtuosi.

La successiva emissione di un debito europeo, per il finanziamento della crescita, sarebbe il secondo passo auspicabile e decisivo per rilanciare le nostre economie e dare il tempo per la successiva integrazione politica ed economica.

Come sempre, le decisioni finali non sono pertanto un problema di tecnica economica ma di natura politica e sono banalmente legate alla capacità di concertazione fra il tornaconto personale dei singoli paesi membri e delle loro popolazioni e la progettualità collettiva.

Se invece si continueranno a mantenere le distanze e le differenze all'interno dell'area europea senza mettersi opportunamente in discussione è facile prevedere un accanimento della speculazione e l'aumento della sfiducia degli investitori internazionali verso un'area debole, priva di sviluppo, con un debito finanziario eccessivo e, soprattutto, priva di una classe dirigente in grado di agire secondo un piano comune efficace.

All'interno di questo quadro di riferimento, il nostro Paese, privo della sovranità sulla propria moneta, indebitato oltre un livello sopportabile, rischia di soccombere a causa della stessa cura che cerca di guarirlo. Nessuno vuole mettere in discussione le necessarie manovre sulla riforma pensionistica, le riforme attuate in campo fiscale, né il timido compromesso sulle liberalizzazioni e sulla riforma del lavoro, ma è il momento di fare molto di più.

Non possiamo sperare ed aspettare l'aiuto europeo! Dobbiamo fare da soli!

Bisogna far ripartire la funzione di finanziamento delle Banche nei confronti delle attività commerciali, anche aprendo una vertenza nei confronti dei criteri di capitalizzazione previsti dall'EBA, European Banking Authority (che prevede l'appostazione, al valore di mercato, dei titoli di Stato presenti nell'attivo del bilancio delle Banche evidenziandone la possibile perdita in conto capitale) quanto mai inopportuni in un momento come quello attuale.

D'altra parte, anche la possibile garanzia dello Stato a sostegno dei finanziamenti, se non fosse valutata a rischio zero, non consentirebbe la concessione senza intaccare il patrimonio di vigilanza.

Dobbiamo avviare un completo piano energetico nazionale che ci consenta di ridurre la nostra dipendenza energetica e diminuire significativamente l'incidenza negativa dei relativi costi all'interno della bilancia commerciale.

Dobbiamo riesaminare complessivamente la capacità e la validità dei nostri settori produttivi cercando di favorire tutti i possibili investimenti verso quelli più competitivi, innovativi ed in cui è plausibile ottenere un premio di remunerazione in base alla qualità più che rispetto al costo.

Dobbiamo ridurre il carico fiscale sulle imprese e sul lavoro, utilizzando tutto quello che è recuperabile dalla lotta all'evasione fiscale, dallo "spending review" e da una possibile maggiore tassazione dei redditi elevati oltre 150.000 euro e sui grandi patrimoni (compresi quelli detenuti dalle fondazioni) come stimolo alla domanda interna.

Dobbiamo infine rendere la macchina dello Stato e l'amministrazione pubblica una "macchina da guerra" che, invece di assorbire quasi la metà del PIL in una logica, in alcuni casi, parassitaria, intervenga attivamente per la sua crescita.

Pensiamo ad un'amministrazione pubblica in cui si attui uno spostamento settoriale delle risorse umane in modo da consentire una maggiore prestazione di servizi che, da un lato rappresentino delle economie per la popolazione civile e per le imprese, e dall'altro possano costituire delle vere e proprie attività remunerative.

Infine, se il processo di unità europeo dovesse mostrare dei limiti tali da indurre a ripensarne l'intera progettualità, attestandosi su obiettivi più modesti, dovremmo essere pronti a considerare una possibile uscita dall'euro, ritrovando la sovranità sulla nostra moneta.

Tutto questo ha bisogno di un rinnovato clima di unità nazionale e di una classe dirigente politica e civile all'altezza di uno dei momenti più difficili che il Paese abbia attraversato.

martedì 27 marzo 2012

Cosa non condividiamo della riforma del lavoro

E' ormai disponibile il testo completo della riforma del lavoro approvata dal Consiglio dei Ministri del 23 corrente, al link:

http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/documento_riforma.pdf

 

Dopo una prima lettura, le perplessità e le preoccupazioni, che l'avevano accolta e seguita nel percorso preparatorio, vengono confermate.

La riforma presenta senz'altro una struttura interessante e cerca d'intervenire su alcuni aspetti di criticità del mercato del lavoro italiano:

-         La difficoltà d'accesso dei più giovani, condannati alla precarietà, attraverso l'utilizzo di una svariata modalità di contratti;

-         La disparità di fruizione degli ammortizzatori sociali;

-         Il legame degli ammortizzatori esistenti con la difesa dell'originario posto di lavoro, anche quando lo stesso non ha prospettive reali di continuità;

-         La necessaria mobilità della risorsa lavoro verso una sua ottimale allocazione negli impieghi più produttivi.

La riforma cerca di operare, su questi problemi, proponendo una riduzione e semplificazione dei contratti d'ingresso, privilegiando l'apprendistato. Prevede disincentivi economici nei confronti del lavoro a tempo determinato. Universalizza, attraverso l'istituzione dell'ASPI, il possibile utilizzo degli ammortizzatori sociali, coprendo anche i lavoratori a tempo determinato, gli apprendisti e gli artisti; ma, commette un errore, in un momento storico come quello attuale, imperdonabile (che mina le possibilità di consenso sociale e l'efficacia della riforma stessa) quando ne limita la durata ad un massimo di diciotto mesi per i lavoratori con età superiore a 55 anni.

Nel frattempo invece si liberalizza il licenziamento economico, eliminandone la concertazione con i Sindacati, fin qui seguita nel percorso verso i licenziamenti collettivi, successivi ai processi di crisi e ristrutturazione, in presenza dell'impossibilità del licenziamento individuale bloccato nella pratica dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Con la nuova formulazione prevista dalla riforma, il licenziamento economico, anche nel caso in cui il giudice non lo ritenga sufficientemente motivato, viene punito con un indennizzo.

Esso viene così di fatto liberalizzato, visto che nel testo della riforma è sottolineato, tra l'altro, quanto segue:

 " il regime di cui sopra, deve essere coordinato, altresì, con quello dei licenziamenti collettivi, nei limiti in cui per essi vale l'art. 18 con l'applicazione, per i vizi di tali licenziamenti, del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti economici."

 

Quando ad una riforma di questa dimensione si accoppia un sistema di protezione e di sostegno al reinserimento del lavoratore, che ha una durata massima di diciotto mesi, si commette un errore tecnico che diventa un problema sociale e politico di primaria importanza, perché si immette nel sistema un elemento di squilibrio per la convivenza civile.

Come si può ragionevolmente pensare che diciotto mesi siano un periodo sufficiente, quando le statistiche dell'utilizzo della flexsecurity, in paesi ben più ricchi dell'Italia, prevedono un tempo quasi doppio di riassorbimento del 90% dei lavoratori?

Quante famiglie potrebbe restare in una condizione insostenibile?

Capisco a questo punto la scelta di lasciar fuori per il momento tutto il settore del pubblico impiego!  Ma non è proprio forse quello in cui  è più urgente intervenire?

Non possiamo condividere questa riforma  pur comprendendo la giustezza dell'intenzione!

La durata degli ammortizzatori è sbagliata! Può avere conseguenze sociali, politiche ed economiche devastanti!

Fa bene il PD a volerla fermare! Fanno bene i Sindacati a chiedere importanti modifiche!

Posso capire che le risorse finanziarie a disposizione siano limitate; ma, in questo caso, bisognerebbe continuare  indicando  con chiarezza l'obiettivo e procedendo con gradualità nell'attuazione, subordinandola al completamento della formazione di un apposito Fondo a copertura.

Fondo da realizzare utilizzando i versamenti previsti per le imprese, incrementandoli  con la fiscalità generale  a carico dei redditi più elevati  oltre 150.000 euro ed i patrimoni oltre 2M o utilizzando  tutte le risorse che potranno provenire dall'azione di revisione della spesa pubblica ( spending review).

Si può procedere alla liberalizzazione del licenziamento  economico, sia nel settore privato sia pubblico, solo a posteriori: quando sarà possibile una durata degli ammortizzatori sociali pari almeno a  quarantotto mesi, com'era previsto nel progetto Flexsecurity del Sen. Pietro Ichino e quando saranno introdotte misure di salvaguardia dei poveri come il salario di cittadinanza

Nel frattempo, si può continuare nella pratica della  concertazione sulle  singole realtà operative  utilizzando gli attuali  strumenti ed introducendo l'ASPI, con l'obiettivo di portarla gradualmente fino a 48 mesi. Una delle proposte in merito all'introduzione  della riforma in maniera graduale è quella di applicarla a partire dai nuovi assunti ( P. Ichino) . Il vantaggio di questa posizione sta nella gradualità del cambiamento ma la sua debolezza sta nel tempo lungo necessario per lo spostamento delle risorse umane verso gli impieghi più produttivi.

Rimango convinto che la gradualità dell'introduzione del meccanismo vada messa in relazione con la realizzazione di un fondo destinato alla copertura economica degli ammortizzatori sociali.

Le altre misure  previste dalla riforma possono invece trovare immediata attuazione e vanno sicuramente in una direzione auspicabile.

 

 

 

venerdì 16 marzo 2012

La dura legge delle riforme

 

 

Mentre siamo rallegrati dalle notizie positive dell'accordo  sul tema del lavoro,  raggiunto  all'interno del vertice tenuto ieri sera fra il Governo ed i segretari dei maggiori partiti della maggioranza, sale contemporaneamente forte la preoccupazione per la protesta preannunciata dalle associazioni datoriali. In special modo preoccupa la volonta comunicata da Rete Impresa Italia,( associazione che riunisce al suo interno le rappresentanze maggioritarie della piccola media impresa del commercio e dell'artigianato) di arrivare alla disdetta dei contratti collettivi, che riguardano  ca il 54% del lavoro privato, nel caso in cui  verrano mantenute le indicazioni fornite dal Governo circa l'aggravio degli oneri a carico delle imprese sui contratti di lavoro a tempo determinato.

C'è da dire che questa misura,  prospettata dal Governo ed accettata dalle forze politiche, costituisce uno dei punti di forza della proposta che verrà portata martedi prossimo nell'incontro con le parti sociali relativa al riordino dei contratti atipici ( col disincentivo degli stessi rispetto il lavoro a tempo indeterminato) ed al recupero, attraverso il loro maggior costo, di risorse utili a consentire l'apertura stabile degli ammortizzatori sociali a questa categoria di lavoratori.

La protesta di Rete Impresa Italia  fa riferimento all'insostebibilità dei costi da sopportare per tutte quelle imprese  che utilizzano  contratti di lavoro a tempo determinato in una fase di crisi economica acuta che  già le penalizza fortemente.

Il disagio è reale,   così come è grave la situazione economica e finanziaria delle imprese; tutavia, le misure proposte dal Governo contengono già in parte alcune soluzioni. La prima è quella che  con la stabilizzazione del dipendente a contratto a tempo determinato è previsto un vantaggio fiscale che permette il recupero dei maggiori aggravi prima sostenuti .Il secondo è la proposta del contratto di apprendistato come via propritaria per le assunzioni di nuovi lavoratori con incentivi sul costo iniziale e maggiore flessibilità in entrata.Il terzo è la riforma relativa all'art 18 distinguendo il licenziamento per motivi discriminatori da quello per motivi economici e per motivi disciplinari.

Se queste misure  non sono sufficienti ci troviamo allora davanti ad un altro problema .

Siamo di fronte cioè, come è stato affernato da molto tempo all'utilizzo improprio del lavoro precario come strumento per il contenimento dei costi complessivi d'impresa, per l'utilizzo incontrollato della risorsa lavoro ed in sostanza  per lo scarico sul lavoro dell'inefficienza ed arretratezza del sistema economico italiano. L'incapacità di stare sul nercato dotati di oppportuna capitalizzazione , investimenti all'altezza della situazione ed  una struttura commerciale e di prodotto adeguata  è stata compensata da un abbattimento del costo del lavoro grazie all'utilizzo di quello precario. Scoperchiare la pentola mostra la faccia del diavolo. Cosa diremmo se nel Mezzogiorno si riuscisse ad impedire il lavoro nero? Quante picccole imprese  dovrebbero chiudere? L'altra faccia della medaglia è che tuttavia queste imprese alimentano l'aretratezza sia della struttura economica che delle condizioni  di lavoro ed alla fine non contribuiscono alla crescita reale del livello di vita di quella comunità. Anche in questo caso, siamo di fronte all'attacco di posizioni di  RENDITA ma ciò non rende meno grave il disagio reale  vissuto dalle categorie che ne sono toccate e che protestano.   Bisogna offrire loro una strada virtuosa da percorrere ed accettare che molti possano dover cambiare tipo di attività. In tutto questo, diventa essenziale  che le imprese in questa fase possano disporre più agevolmente di mezzi finanziari ed a più basso costo. Questo è il corollario necessario a qualsiasi misura di riordino . Senza di questo, si apre una voragine perché tutti i problemi non risolti da anni vengono alla luce senza i mezzi economici per affrontarli. Dobbiamo fare in modo che le Banche tornino rapidamente a svolgere il loro compito di finanziamento ampio alle imprese e che il risparmio  e la ricchezza delle famiglie si trasformi  in investimento a prezzi contenuti. La riduzione dello spread dei titoli pubblici italiani  su quelli tedeschi e l'iniezione di liquidità della BCE sono state salutari e rappresentano una precondizione possibile per una maggiore liquidità del sistema . L'annunciata volontà di Unicredit di mettere a disposizione una linea di credito  di quaranta miliardi in tre anni a favore delle imprese è una notizia positiva ma bisogna fare ancora molto in tal senso  .

Di certo non si deve tornare indietro e bisogna dare atto  che il Governo si sta muovendo sulla questione lavoro  in maniera positiva.

E' doveroso che  da parte di tutti gli venga dato il sostegno che merita.

mercoledì 14 marzo 2012

Lo SPREAD della politica

Alcuni giorni fa, il nostro Primo Ministro, commentando gli scontri fra i partiti, si chiese ironicamente se, mentre si abbassava lo spread fra i titoli tedeschi e quelli italiani, non si stesse allargando invece quello fra i partiti che sostengono lo stesso governo.Ci auguriamo tutti che la scelta a favore del Governo Monti possa continuare fino alla fine della legislatura, anche se c'è poco da illudersi. Nel frattempo, sembra che il vero spread, che si allarga sempre di più, sia quello fra i partiti e la politica, fra i partiti ed i cittadini.La corruzione, che continua a mostrare i suoi volti politici, alimenta ulteriormente questa frattura. Dopo le questioni, riguardanti la Regione Lombardia, ritornano le indiscrezioni sul caso Lusi.

C'è da chiedersi: chi controlla le disponibilità ed i beni che appartennero alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista ed al Partito Comunista, fino a giungere alle attuali formazioni politiche? E ancora: i Beni di Forza Italia e Alleanza Nazionale sono confluiti nella formazione politica PDL?  E quelli della "Margherita" e del "DS" sono confluiti nel PD?Le disponibilità mobiliari ed immobiliari sono tutte in capo agli attuali partiti e quali?Vi sono beni invece possedute da fondazioni? Chi li controlla?

Tutti i partiti amministrano grandi patrimoni e godono d'entrate forse eccessive nei confronti dei loro fabbisogni.In particolare, l'ammontare complessivo dei rimborsi elettorali è molto superiore a quanto viene effettivamente speso. Oltre tutto, la particolare natura giuridica dei partiti, che non hanno obbligo di bilancio certificato, rende difficile il controllo e la punibilità di una gestione non regolare.Diventa difficile seguire il percorso delle disponibilità e quindi di verificarne la corretta e democratica gestione.

Chi controlla l'utilizzo e la disponibilità di questi beni?

A giustificazione del finanziamento pubblico dei partiti sotto forma di rimborso elettorale (modalità attraverso cui si è deciso di intervenire in modifica della volontà espressa dai cittadini in un apposito referendum) si afferma che in sua assenza farebbero politica solo i ricchi o peggio ancora che i partiti diventerebbero "dipendenti" dai finanziatori privati.Si potrebbe obiettare che i partiti potrebbero invece avere un diffuso finanziamento privato da parte degli elettori, in piena  trasparenza, che, se gestito secondo regole di piena democrazia, consentirebbe di evitare i rischi di una cattiva gestione..

Si ha invece l'impressione che grazie al finanziamento pubblico i partiti possano sopravvivere e rimanere "indipendenti", sì ...ma... dai propri elettori?!

Le questioni vanno affrontate insieme: da un lato, bisogna modificare la natura giuridica dei partiti, dall'altro modificarne le modalità di finanziamento.La forma giuridica preferibile potrebbe essere quella della "onlus": in questo modo tutte le spese verrebbero documentate. Verrebbe introdotta l'obbligatorietà della certificazione del bilancio, il divieto di distribuire utili e di svolgere attività diverse da quelle statutarie..Riguardo al rimborso elettorale bisognerebbe contemporaneamente arrivare ad una riforma che preveda la concessione obbligatoria di spazi gratuiti sui mezzi d'informazione pubblici e privati ai contendenti politici ,durante le elezioni e per il resto che venga permesso il finanziamento privato regolandone le modalità.Il finanziamento pubblico potrebbe in tal modo essere radicalmente ridotto.Il momento sociale e politico diventa sempre più difficile ed è diffusa opinione che avremo grosse difficoltà a far ripartire il nostro Paese se non si procederà ad una riforma della politica e delle istituzioni tale da consentire ai cittadini di riprenderne il controllo ed evitare quel distacco che favorisce il sorgere della corruzione e della collusione con la malavita organizzata. Questa fase storica della nostra società può richiedere un ripensamento sulle nostre Istituzioni e sicuramente  a breve la necessità di procedere alla riforma elettorale garantendo così al cittadino la possibilità di poter scegliere il proprio rappresentante già dal prossimo appuntamento del 2013.Restringere lo spread della politica, ponendo così le basi sia per una più facile partecipazione del cittadino alla "cosa" pubblica sia per una seria lotta alla corruzione, sta diventando una determinante precondizione per la crescita della nostra società.

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 7 marzo 2012

Una sfida per la crescita

Il mondo occidentale è stato scosso da una profonda crisi finanziaria che, partita dal settore privato, si è poi estesa rapidamente ai debiti degli stati sovrani.

La crisi finanziaria non si è limitata ad assorbire risorse, che potevano essere destinate al mondo produttivo, ma ha innescato una vera e propria recessione in molti dei paesi occidentali, compresa l'Italia.

Proviamo a ripercorrere per un attimo i vari passaggi per cercare di comprenderne meglio i meccanismi.

La crisi è scoppiata negli Stati Uniti d'America, con diffuse insolvenze nel settore dei mutui e delle carte di credito, ed ha messo rapidamente in mostra tutti i difetti che un'eccessiva deregulation aveva procurato al settore finanziario.

Ingenti  quantità di denaro, rappresentate da titoli emessi a copertura della gran massa delle erogazioni di mutui e delle successive cartolarizzazioni degli stessi, che avevano moltiplicato geometricamente le disponibilità monetarie utilizzabili per la concessione di nuovi crediti, perdevano rapidamente valore, procurando delle vere e proprie voragini negli attivi dei bilanci delle istituzioni bancarie e finanziarie che detenevano quei titoli in portafoglio.

Il primo rischio immediato fu che tali perdite potessero portare al fallimento a catena di un numero imprecisato di banche rovinando milioni di risparmiatori e portando in uno stato di depressione l'intero sistema economico.La mancata separazione delle Banche d'investimento da quelle di gestione del risparmio privato e del credito alle imprese si è rivelata fatale ed ancora oggi non è stata ancora opportunamente risolta. Esistono  ulteriori rischi gravanti sul sistema finanziario: primo fra tutti quello relativo al mondo dei "derivati" i cui rischi complessivi superano per entità il PIL mondiale.Centinaia di banche hanno speculato sull'offerta di questo tipo di operazioni  esasperandone i contenuti assicurativi in modo da ottenere un guadagno sproporzionato al servizio reso e consistente spesso nel fare assumere all'ignaro cliente, sia esso impresa o privato, un rischio elevatissimo e spesso probabile. La quotazione di queste operazioni ha permesso il conseguimento di utili spaventosi che per una strana alchimia contabile potevano essere conteggiati tutti nell'esercizio in cui veniva  sottoscritta l'operazione anche se questa aveva un contenuto pluriennale.

Chi ha pagato tutto questo? In che cosa è consistito questo processo?

In un trasferimento di ricchezza dal settore produttivo alla rendita finanziaria con l'arricchimento dei bilanci di banche che hanno utilizzato le risorse per pagare profumatamente i propri managers, per raggiungere dimensioni più ampie e dilatare la propria propensione al rischio rispetto alla  capitalizzazione. La gestione della finanza permetteva pertanto guadagni insperati parassitari a carico del sistema produttivo e del risparmio.

Quando la società occidentale, spremuta dalla finanza, spinta ad indebitarsi con facilità, spogliata dalle proprie attività produttive (delocalizzate nei paesi in via di sviluppo) e offesa da una concentrazione della ricchezza nelle mani di un sempre minor numero di persone (che investono le proprie ricchezze in una dimensione complessiva, non più legata al proprio Paese) non riesce più ad onorare il rimborso dei propri debiti privati, per evitare il disastro, gli Stati Sovrani sono costretti ad intervenire, accollandosi buona parte di quelle perdite e spalmandole sull'intera popolazione, sotto forma d'allargamento del debito pubblico.

Questo processo ha portato ad una maggiore richiesta complessiva di denaro sul mercato globale ed ad un inasprimento della concorrenza fra i singoli stati sovrani per accaparrarsi una maggiore quota di risorse senza deprezzare il potere d'acquisto dei propri cittadini attraverso un processo di svalutazione della moneta e d'inflazione correlata.

Ma facciamo un passo indietro e chiediamoci se tutto questo non sia avvenuto all'interno di un sistema che stava perdendo ormai complessivamente competitività rispetto ai paesi emergenti.

La cosiddetta globalizzazione era già una realtà affermata e l'apertura del WTO alla Cina ne è stato il riconoscimento ufficiale.

Paesi fino a quel momento considerati sottosviluppati e marginali, grazie al diffondersi rapido del fattore conoscenza, con l'utilizzo dell'informatica e di internet potevano recuperare posizioni a passa da gigante.Imprese moderne basate sulle immobilizzazioni immateriali e cioè sostanzialmente sul capitale umano hanno avuto la possibilità di ridurre molto più velocemente il Gap con quelle dei paesi occidentali. La facilità degli spostamenti delle merci., delle informazioni e la globalizzazione del mercato dei capitali ha fatto il resto permettendo che lì dove si riuscissero a combinare le conoscenze (attraverso un miglioramento radicale del sistema scolastico) i capitali (statali o per mezzo di joint venture fiscalmente convenienti) e lavoro a basso costo venissero delocalizzati i grossi impianti produttivi. Prima utilizzando macchinari dimessi e produzioni più semplici ad alto utilizzo di lavoro poi passando a prodotti sempre più sofisticati. Dalla delocalizzazione dei servizi (trasferimento di call centers, di agenzie di controllo informatico, di gestione contabilità e fatturazione fino all'esecuzione centralizzata di bonifici bancari.) si è passati alla produzione di merci sempre più complesse e tecnologicamente avanzate contando questa volta non solo sul mercato occidentale ma soprattutto sul mercato enorme dei BRICS.

Mercato quest'ultimo di grande interesse per le potenzialità di crescita e per il numero elevato di persone da cui è costituito.

Sia l'Occidente sia i BRICS devono fare i conti con la necessità di disporre di adeguate risorse  energetiche e per questo motivo assistiamo, sullo scacchiere internazionale, al formarsi di strane alleanze o di veti contro l'emarginazione  di alcuni Paesi produttori, pur di assicurarsele.

Rimane una domanda essenziale: se i Paesi emergenti riescono a produrre merci e servizi di punta nel mercato con la stessa qualità offerta  dai paesi occidentali ma ad un prezzo inferiore e con un rendimento più alto del capitale investito, perché mai non dovrebbero gradatamente soppiantare la nostra capacità produttiva?

Un esempio può venire dal settore elettrodomestici dove ormai questi paesi hanno acquisito una fetta del mercato internazionale consistente e mantengono una capacità di crescita su quello  interno enorme mentre il nostro è sostanzialmente fermo.

Oggi, in Europa, stiamo mettendo al primo punto di tutti gli interventi governativi il problema del contenimento del debito pubblico perché è ormai evidente che nessuno è più interessato ad investire nell'ulteriore dilatazione del debito di paesi in cui il rapporto fra debito e Pil ha raggiunto dei livelli che rischiano di essere insostenibili.

Molti chiedono quindi che si abbia la capacità di fare un passo in avanti verso un'Unione Politica che metta in comune la situazione debitoria complessiva e si ponga degli obiettivi unitari di crescita.

Le resistenze sono tuttavia molto forti. La complessità delle differenze delle economie dei Paesi membri ed il numero elevato degli stessi, oltre che le differenti e marcate nazionalità, pongono dei problemi di non facile soluzione. Se comunque, il processo andasse in porto potremmo anche provare a chiedere insieme ulteriore credito per la crescita ma dovremmo essere in grado d'immaginarla e di recuperare competitività attraverso la compensazione del maggior costo del lavoro con nuova tecnologia prodotta  dalla  ricerca e dallo sviluppo della conoscenza.

In ogni caso per il nostro Paese, all'interno di qualunque scenario internazionale possibile, è necessario puntare sul recupero di margini di competitività in tutti quei settori di cui il mercato globale chiede lo sviluppo e su cui é disposto a tollerare un premio di remunerazione.

Solo in questo modo potremo pensare di difendere il nostro livello di vita aspettando con pazienza che contemporaneamente quello delle popolazioni emergenti si avvicini al nostro.

Troppe risorse sono sprecate nella rendita di posizione e concentrate in un ristretto numero di famiglie. Tutto questo rischia di essere controproducente  alla realizzazione della crescita complessiva delle società e pertanto misure fiscali orientate verso una  maggiore redistribuzione delle ricchezze e lo scoraggiamento delle eccessive differenze reddituali sono indispensabili. Così come il problema di una rinnovata etica sociale unita ad una lotta senza quartiere alla corruzione  ed alla malavita organizzata costituiscono una precondizione necessaria per l'affermazione della meritocrazia e della produttività.Non possiamo non mettere al primo posto il lavoro, la diffusione della conoscenza e l'autosufficienza energetica, cercando ogni tecnologia possibile per realizzare questo obiettivo e ben vengano tutte quelle riforme che possono facilitare  la piena e migliore allocazione delle risorse.

 

giovedì 1 marzo 2012

Buona Notte Lucio

 

Buona notte  e che tu possa svegliarti in quel Paradiso che qualche giorno  fa a Sanremo Celentano si augurava ci fosse per tutti noi.

Mi piace pensare il tuo volto, ormai sereno avvolto nel mistero della morte,  ed accarezzare la tua fronte  che è stata sempre piena di pensieri  e creatività con cui ci hai regalato tanti pezzi di poesia per la nostra vita.

 Avevi qualche anno più di me ed ho ascoltato da ragazzo le tue canzoni , insieme a quelle di Tenco, di De Andrè, di Battisti, di Guccini e di  tutti gli altri  artisti della tua generazione che erano i miei fratelli grandi che mi spiegavano la vita.

Grazie Lucio per essere stato sempre un po' fuori le righe di una morale ordinaria e di non esserti mai accontentato .

Hai amato la gente , tutta, soprattutto i più umili e peccatori , quelli per cui c'è poca attenzione,ed hai guardato il mondo con l'avida curiosità che ti condivido .

 Hai amato la mia terra!

Hai voluto una casetta proprio in un paesino dell'Etna,  vicino la mia Catania.

Hai voluto abitare anche nelle isole Tremiti dove, quando sono stato, ho potuto godere anch'io dello splendore dell'azzurro del mare e del cielo. Com'è profondo il mare!

Grazie Lucio per le tue canzoni che tante volte  accompagnano i miei pensieri e riscaldano il mio cuore d'emozione.

Ciao.