martedì 15 ottobre 2013
Attualità e condizioni dello Stato imprenditore
giovedì 3 ottobre 2013
Idee per il Congresso PD
domenica 29 settembre 2013
La strategia dei ragni
La crisi del governo sembra ormai aperta.
Per cercare di capire cosa è successo proviamo tuttavia, per un attimo, a guardare le cose dal punto di vista di Berlusconi.
Lui sapeva benissimo che, nei prossimi giorni, si sarebbe arrivati ad una decisione che lo avrebbe allontanato dal Parlamento. Questo avrebbe sancito definitivamente il suo irreversibile declino. Presto, i suoi più fedeli seguaci avrebbero cominciato a prendere le distanze ed a metterlo da parte.Perso per perso, perché dunque aspettare questa quasi inevitabile decisione?
Perché mantenere l'appoggio ad un governo che, a quel punto, poteva giovare e mettere in luce solo colui che restava comunque un avversario politico: Enrico Letta?
In nome di un servizio al Paese? No, meglio staccare adesso la spina e cercare di fare ricadere la responsabilità di tutto su di un PD ed una magistratura che si accaniscono colpevolmente contro il leader del centro destra.
Che cosa c'é da perdere?
Vista la probabile decadenza, meglio almeno riprendere l'iniziativa politica e tentare il gran colpo di ottenere la maggioranza assoluta nel futuro parlamento approfittando di questa legge elettorale che consente al capo del partito di scegliere i propri candidati ed al partito di maggioranza di ottenere un premio ben al di sopra del desiderabile.
Berlusconi potrà sempre essere costretto a stare al di fuori del Parlamento ma con un ben diverso ruolo ed importanza. Soprattutto, mantenendo il controllo su tutto e sperando di poter influire su di una risoluzione morbida dei propri problemi.
L'altra alternativa possibile, dal suo punto di vista, è che presi dalla paura delle conseguenze di possibili tensioni sui mercati dei capitali e sull'evoluzione economica del Paese Il governo, il PD o lo stesso Capo dello Stato, potessero cedere e trovare un modo pulito per salvarlo.
Bene! Tanto di guadagnato! Anzi, é l'unica possibilità rimasta per vincere a breve la battaglia, avrà pensato Berlusconi.
Un gioco spietato, lucido e cosciente.
Ed il PD?
Non c'è da pensarci due volte. Bisogna cambiare pagina definitivamente. Prendere l'iniziativa e chiedere al paese di uscire da questo ventennio con una svolta decisa. Proporsi da soli per il governo del paese nel segno della discontinuità con il ventennio precedente ma anche con i tatticismi e le mezze parole della prima repubblica.
Allora il PCI era confinato dalla guerra fredda in un'eterna minoranza ed opposizione.
Oggi il Partito Democratico può porsi invece davanti agli italiani come il partito del cambiamento e del riscatto del nostro paese. Un partito che metta fine all'intreccio fra illegalità, corruzione e criminalità organizzata che ci condannano al sottosviluppo. Un partito capace di riprendere la sua " vocazione maggioritaria" chiedendo agli elettori i voti sufficienti per governare.
Ma già si prospetta un'altra strada che, tuttavia, è destinata probabilmente a fallire in seguito alla strategia di un altro ragno: Beppe Grillo
Tenuto conto delle difficoltà che il Paese potrebbe incontrare a seguito di un'improvvisa crisi di governo, sarebbe auspicabile, almeno, la formazione di un governo del Presidente che realizzasse la riforma della legge elettorale e l'approvazione della legge di stabilità (dove si sono già sentiti questi discorsi?). E' necessario per evitare il commissionamento dell'Italia da parte dell'Europa e del FMI. E' necessario per non far svanire nel nulla tutti gli sforzi fatti. E' necessario per non ritornare al voto con la vecchia legge elettorale e per dare il tempo alle forze progressiste di riorganizzarsi ed affrontare le prossime elezioni con la speranza di vincerle.
Ma chi dovrebbe consentire la riuscita di questo progetto? Con quali voti questo governo tecnico dovrebbe ottenere la fiducia del Parlamento?
Quest'ipotesi non sembra percorribile senza immaginare una spaccatura dell'esercito del centro destra e/o un appoggio esterno del Movimento Cinque Stelle.
Non sembra facile immaginare una spaccatura del centro destra ma speriamo di sbagliarci. Meno probabile ancora sembra l'ipotesi di una possibile collaborazione del M5S in considerazione della reiterata indisponibilità di Grillo a qualsiasi forma di collaborazione. L'unica ipotesi cui guarda è quella di un incarico diretto al suo movimento o meglio ancora quella di dimostrare che i due partiti di governo sono in realtà due facce della stessa classe dirigente che ha rovinato l'Italia e che pertanto deve essere spazzata via dal M5S alle prossime elezioni.
L'indisponibilità di Grillo e del suo movimento ad una collaborazione organica di governo con il PD per il cambiamento effettivo del paese è stata in fondo la vera premessa della crisi istituzionale e della necessaria formazione del governo di larghe intese e ciò comporta delle forti responsabilità.
Il PD deve guardare con interesse agli elettori di questo movimento; ma, allo stesso tempo, non può non incitarli ad abbandonare posizioni estremiste e precostituite, che, alla fine, mantengono lo status quo. Tutti i compagni di strada sono bene accetti ma oggi il Partito Democratico non può delegare a nessuno la responsabilità della direzione del progetto paese che porta avanti.
Il Partito Democratico ha la possibilità e la responsabilità di operare una decisa svolta della vita politica del nostro paese.
Oggi è il momento di operare scelte difficili e radicali. Non si può più aspettare.
domenica 11 agosto 2013
QUARTET
venerdì 14 giugno 2013
L'organizzazione del fattore lavoro

sabato 1 giugno 2013
Il partito delle riforme
Gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che ha superato il 40%, le preoccupate dichiarazioni prima del Presidente di Confindustria Squinzi e dopo del Governatore della Banca d'Italia Visco impongono a tutti un momento di riflessione e la disponibilità a mettere da parte ogni eventuale pregiudizio ed ogni difesa dei propri privilegi per renderci tutti disponibili e compartecipi del cambiamento del nostro Paese.
Senza di questo, rischiamo tutti di perdere il contatto con i paesi più sviluppati e con la stessa Europa.
La conseguenza è sotto i nostri occhi: un bilancio dello Stato pericolante, una disoccupazione a livelli insopportabili un livello inaudito di corruzione, di delinquenza organizzata e di rendita che pesano come macigni sul mondo produttivo, un progressivo impoverimento delle famiglie, la perdita di competitività delle nostre imprese, un rischio di vera e propria deindustrializzazione del nostro sistema economico con modeste prospettive di crescita.
E' nostro dovere reagire operando su due livelli, quello interno e quello europeo.
Sul piano interno è necessario recuperare il divario di competitività crescente con i paesi europei più avanzati agendo sia sulla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro sia dando un serio impulso ai progetti di ricerca e sviluppo. La limitata innovazione delle imprese italiane negli ultimi anni ha determinato, infatti, una progressiva perdita di produttività orientando la specializzazione del nostro settore manifatturiero (che copre ca. il 16,7% del valore aggiunto lordo dell'Italia, dati 2011) verso prodotti a bassa intensità tecnologica.
Secondo quanto riportato nel recente Documento di lavoro dei servizi della Commissione Europea-Esame approfondito per l'Italia-a norma dell'articolo 5 del regolamento (UE) n. 1176/2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici, del 10/4/2013
" La quota del valore aggiunto manifatturiero nei settori a basso o medio-basso contenuto tecnologico ammontava al 62% nel 2009, rispetto al 44% della Germania, il 59% della Francia e il 64% della Spagna Negli ultimi vent'anni inoltre la specializzazione settoriale dell'Italia è rimasta sostanzialmente stabile (il settore ad alta tecnologia rappresentava il 6,7% del valore aggiunto lordo totale del settore manifatturiero nel 2011, rispetto al 6,5% nel 1992)" si conclude quindi che "Il modello di specializzazione dell'Italia ha esposto l'economia all'accesa concorrenza delle economie emergenti. La specializzazione dell'Italia nei prodotti a basso e medio-basso contenuto tecnologico implica un mix di prodotti per l'esportazione molto simile a quello della Cina e di altri mercati emergenti che possono beneficiare di manodopera a basso costo".
Se a tutto questo aggiungiamo un costo dell'energia mediamente superiore del 30% a quello sostenuto dai nostri competitors europei, la difficoltà del credito ed il suo costo elevato, le eccessive incombenze burocratiche, l'insufficienza delle infrastrutture, l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, l'incompleta liberalizzazione del mercato ed una lentezza della giustizia che rende difficile la certezza del credito possiamo renderci conto delle ulteriori difficoltà che gravano in Italia sul " fare impresa".
L'elevato costo e le difficoltà di accesso al credito sono poi uno dei problemi più importanti che occupano la vita delle aziende italiane. Il costo del denaro è inevitabilmente influenzato sia dall'aumento delle sofferenze sia dal rendimento dei titoli del debito pubblico.
Secondo quanto espresso dal Governatore Visco nella sua recente relazione annuale "Alla fine del 2012 la consistenza dei prestiti in sofferenza è salita al 7,2 per cento degli impieghi complessivi, dal 3,4 del 2007; quella degli altri crediti deteriorati al 6,3 per cento, dall'1,9. Per le imprese, il flusso delle nuove sofferenze in rapporto agli impieghi ha recentemente superato, su base annua e al netto di fattori stagionali, il 4 per cento, un livello non toccato da venti anni. "
L'aumentato livello delle sofferenze, le perdite realizzate sul valore dei titoli in portafoglio ed i nuovi criteri di Basilea tre comportano per il sistema bancario italiano la necessità di una maggiore patrimonializzazione per riprendere con la dovuta efficacia il ruolo di finanziamento del sistema delle imprese che oggi non è soddisfacente.
D'altra parte, la maggior parte delle imprese italiane, anche a causa della piccola dimensione, attinge con difficoltà ad altre forme di finanziamento della propria attività che non siano quelle bancarie.
E' stata utile a questo scopo l'azione del Fondo Centrale di garanzia e della Cassa Depositi e Prestiti che fra il 2009 e il 2012 hanno permesso quasi 60 miliardi d'intervento a favore delle piccole e medie imprese fra nuovi finanziamenti e moratorie.
Il sistema bancario italiano ha superato bene l'esame della crisi finanziaria del 2008 e gli interventi dello Stato a suo favore sono stati ben inferiori da quelli sostenuti dagli altri paesi europei. Basti pensare che, come ci spiega il Governatore Vinco nella sua relazione: "Lo scorso dicembre il sostegno dello Stato alle banche ammontava all'1,8 per cento del PIL in Germania, al 4,3 in Belgio, al 5,1 nei Paesi Bassi, al 5,5 in Spagna, al 40 in Irlanda. In Italia l'analoga quota è pari allo 0,3 per cento includendo gli interventi per il Monte dei Paschi di Siena."
Bisogna tuttavia fare di più perseguendo due obiettivi:
a) separare il legame esistente oggi fra l'andamento del settore bancario e quello del debito pubblico
b) Ripristinare il ruolo di finanziatore del sistema delle imprese.
Sul secondo punto bisogna che sia rafforzata la patrimonializzazione delle aziende bancarie sia capitalizzando gli utili prodotti sia aprendo la loro composizione sociale a nuovi investitori italiani ed esteri e riducendo il ruolo delle fondazioni. Un'altra strada da percorrere è rappresentata dal potenziamento del ruolo del Fondo Centrale di Garanzia e della cassa depositi e Prestiti che con il loro credito di firma possono decisamente sbloccare l'attuale pericolosa situazione di stretta creditizia impegnando in misura limitata le finanze dello Stato e consentendo un effetto moltiplicativo dei fondi stanziati. Per quanto riguarda invece il primo punto il risultato è conseguibile solo grazie ad un'azione concertata a livello europeo. Si ritiene utile a questo fine riportare ancora dei brani del testo della recente relazione del Governatore Visco: " Il progetto di unione bancaria mira a spezzare la spirale tra debito sovrano e condizioni delle banche e del credito
.La creazione di un supervisore unico, imperniato nella BCE e nelle autorità nazionali, è il primo passo; va rapidamente completato da uno schema comune di risoluzione delle crisi bancarie e da un'assicurazione comune dei depositi.Vanno precisati i contorni, definiti i tempi di attuazione, del progetto di un bilancio pubblico comune dell'area dell'euro.
..L'istituzione di meccanismi di sostegno finanziario comuni per le riforme strutturali nei singoli paesi può fornire l'occasione per avviare il progetto ed intraprendere, in via sperimentale, l'emissione di titoli di debito congiunti."
Queste ultime considerazioni del Governatore Visco, unite ai suoi richiami indirizzati alle forze politiche italiane perché non pensino di poter ottenere in sede europea una deroga al tetto del deficit del 3% (, dato il continuo e previsto incremento del rapporto debito /PIL al di fuori delle condizioni del "Fiscal Compact"), pongono alla nostra attenzione il ruolo delle istituzioni europee nei confronti del processo di crescita economica del continente. Timidamente Visco parla di " emissione, in via sperimentale, di titoli di debito congiunti" per finanziare le riforme strutturali dei singoli paesi.In realtà l'unico modo di affrontare definitivamente la questione sarebbe quello di fotografare l'attuale situazione del debito dei singoli paesi europei, la cui possibile evoluzione è già definita dalle regole del fiscal compact; e presentarsi come unica entità di fronte ai mercati con la garanzia della BCE e di tutti i governi europei : Successivamente, la BCE dovrebbe a sua volta finanziare il debito dei singoli stati membri, internamente a tassi differenti ( spread all'interno di un ventaglio di oscillazione prestabilito) in base a criteri di valutazione ( rating) comunemente accettati e condivisi.
Questa misura permetterebbe di separare definitivamente il destino delle singole banche di un paese da quello delle finanze pubbliche dello stesso.Permetterebbe inoltre di rendere efficace la politica monetaria europea e di muoversi verso una parità di condizioni del credito nei confronti delle imprese di tutti i paesi membri.
Il cammino verso una maggiore integrazione europea di tipo federale non può che realizzarsi a patto di ridurre le differenze ed i vincoli rispetto all'utilizzo dei principali fattori di produzione: capitale, lavoro e tecnologia. Muoversi verso una riduzione delle differenze sul costo del denaro, sulla facilità di credito e sulla garanzia universale dei depositanti costituirebbe un passo avanti nel senso dell'integrazione. Avere la capacità di porre un limite minimo europeo ai salari ed ai diritti dei lavoratori sarebbe un altro punto importante. Incrementare il bilancio europeo, anche con il ricorso all'emissione di titoli di debito, per finanziare centri di ricerca comuni di eccellenza, per delineare un programma di approvvigionamento comune delle fonti energetiche al fine di equipararne i costi, per realizzare una politica militare ed internazionale comune, per realizzare le più importanti infrastrutture comuni, porrebbe le basi per un governo politico federale.
Se non si faranno passi in questo senso. su quali altre basi si potrà procedere?
Le forze politiche del nostro paese si trovano impegnate su due fronti quello nazionale e quello europeo. Entrambi sono essenziali per il futuro del paese e richiedono un progetto di riforme difficili e radicali. Avremmo bisogno di un grande partito delle riforme più che di tanti movimenti di protesta e/o di protezione dei privilegi acquisiti.
venerdì 10 maggio 2013
Il governo Letta ed il progetto Paese
Dopo mesi di travaglio politico abbiamo finalmente un governo che, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato prima delle elezioni, vede le forze politiche, che avevano dato il sostegno al Governo Monti per poi metterlo in crisi su iniziativa del PDL, ritrovarsi di nuovo insieme per gestire i problemi del Paese.Questa volta, non ci si nasconde più dietro uno staff di tecnici; ma, viene rivendicato il carattere politico della gestione, con un governo di " larghe intese" incoraggiato e fortemente voluto dal rieletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.Speriamo tutti nel miracolo, vale a dire, che questo governo trovi, in un'inaspettata unità d'azione delle sue componenti, la capacità e la forza di porre le basi per la "crescita" della nostra economia ed il superamento della piaga della disoccupazione, che affligge le famiglie.
Per riuscire in questo scopo, il governo Letta dovrebbe realizzare tre obiettivi:
a) Predisporre un progetto Paese in grado di delineare le prospettive di crescita e di sviluppo per i prossimi anni, con l'indicazione dei principali interventi e dei settori in cui operare
b) Avere il sostegno forte dai partiti politici che gli hanno dato la fiducia
c) Trovare le risorse necessarie per realizzare il piano d'interventi prefigurato.
Tutte e tre le questioni prevedono un impianto strategico d'ampio respiro, che, inevitabilmente, vede in contraddizione i principali partiti della coalizione di governo ed, in particolare, il Partito Democratico, dilaniato al suo interno da un profondo malessere. E' difficile affrontare problemi di tale livello, che dovranno necessariamente superare forti resistenze da parte d'interessi precostituiti, senza avere un'ampia coesione politica. Questa al momento non esiste. Bisognerà prenderne atto, chiedere a questo governo di realizzare alcune, poche cose possibili e già condivise, per poi tornare al voto, dando la fiducia ad un progetto Paese coerente e di lunga durata, portato avanti da una coalizione politica coesa e determinata.
I problemi che abbiamo davanti sono di tale entità da richiedere una visione fortemente caratterizzata politicamente. Abbiamo bisogno di porre fine ad una presenza massiccia e intrusiva della delinquenza organizzata e della corruzione. Abbiamo bisogno di sviluppare, a tutti i livelli, la meritocrazia contro la rendita di posizione ed il corporativismo. Abbiamo bisogno di mettere al primo posto il lavoro e dare una dignità al lavoratore abbattendo la piaga del precariato e della disoccupazione. Abbiamo bisogno di una redistribuzione delle ricchezze, di una ripresa della competitività e della produttività delle nostre imprese. Abbiamo bisogno di un piano energetico nazionale che riduca in tempi rapidi il deficit della bilancia energetica ed il differenziale del costo rispetto agli altri paesi. Abbiamo bisogno di tutte quelle riforme strutturali (dalla semplificazione burocratica, ai tempi della giustizia, alle liberalizzazioni, allo sviluppo d'adeguate infrastrutture ecc.) che consentano un risparmio aggiuntivo di costi generali per il sistema produttivo. Abbiamo bisogno di un forte impulso della conoscenza, della formazione, della ricerca e sviluppo.
Tutte questioni che richiedono un progetto Paese, una visione del futuro, la capacità di assumere un ruolo definito e forte sul piano internazionale.
Con quali risorse potremo realizzare questi obiettivi? Come potrà intervenire e con quali limiti la spesa pubblica a sostegno delle decisioni governative?
Oggi, parlare dell'utilizzo della spesa pubblica come motore della crescita ci pone immediatamente il problema dello stato della finanza. In linea di principio, quando per diversi motivi la struttura economica di un paese è ferma o in declino, l'intervento pubblico può costituire un volano necessario e importante. Può costituire quel finanziamento suppletivo del piano d'investimenti del paese che stimoli a sua volta l'investimento privato. Anche sul piano del sostegno della domanda interna, il ruolo dello Stato e della spesa pubblica possono essere decisivi, come ad esempio lo è la decisione del pagamento degli arretrati dovuti alle imprese.
Il problema è la compatibilità di tutto questo con la situazione finanziaria dello Stato italiano. Considerata la condivisa impossibilità di ricorrere ad un ulteriore ampliamento del peso fiscale sul PIL, quali altre strade ci rimangono?
La principale è quella di operare attraverso una riqualificazione della spesa, orientandola verso gli impieghi più produttivi. Altre possibilità possono venire dalla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, dal possibile ricorso al finanziamento in deficit e da una rimodulazione della fiscalità che allevii il carico presente sul lavoro e sulle imprese.
Partendo da quest'ultima questione si possono sottolineare alcuni problemi:
- E' osservabile come i dati relativi alla tassazione sui consumi sia inferiore rispetto a quella applicata in diversi paesi europei. Il Governo Monti aveva preso l'impegno di evitare l'aumento di un punto dell'IVA (al 22%) previsto quest'anno. Siamo certi che questa misura in questo momento sia corretta? Non sarebbe forse preferibile operare un aumento diversificato a seconda della tipologia (penalizzando ad esempio quelli di lusso, quelli a maggior impatto ambientale ecc.);
- Non è forse necessario aumentare la progressività del carico fiscale sui redditi più elevati allentando il gravame su quelli più bassi e consentendo un incremento del loro potere d'acquisto? Ipotizzare una forte progressività oltre i 100.000 euro di reddito annui potrebbe da un lato scoraggiare livelli di retribuzione elevati (specialmente per il lavoro dipendente o manageriale) e dall'altro operare una più equa imposizione nei confronti dei redditi più bassi;
- Non sembra corretto che la tassazione sui dividendi azionari (20%) sia eguale o superiore alla tassazione sui redditi da investimento finanziario, siano essi interessi su depositi bancari o su obbligazioni o plusvalenze. Siamo comunque in presenza di capitali investiti direttamente nelle imprese. Penso che per le altre forme d'investimento si possa proporre un aumento al 30%.
- Sul tema IMU, va rilevato che forme d'imposizione sul patrimonio immobiliare sono presenti in tutti i paesi europei e siano pertanto da mantenere. E' possibile semmai prevedere una rimodulazione, aumentando la possibilità di detrazione sulla prima casa in base anche al reddito IRPEF.
Se non si può pensare ad un incremento della tassazione per il recupero d'ulteriori risorse, ma semmai prevedere una diversa distribuzione del peso fiscale con un minor carico sul lavoro e sui redditi più bassi, bisognerebbe ragionare almeno sulla possibilità di procedere su altri punti:
- dismissione del patrimonio immobiliare pubblico;
- riduzione di tutti gli stipendi pubblici superiori ad un determinato importo da stabilire con procedure che congelino i trattamenti esistenti superiori e riducano l'importo delle nuove retribuzioni; - Ripresa della spending review utilizzando l'applicazione del costo standard e rimuovendo tutti quegli ostacoli provenienti dai più alti livelli della burocrazia dello Stato;
- riduzione dei costi della politica;
- ruolo di prestatore di garanzia e di motore della finanza da parte della Cassa Depositi e Prestiti;
- riforme strutturali a cominciare dalla semplificazione burocratica ai tempi della giustizia ecc. che, a costo zero, rappresenterebbero un risparmio di spesa notevole per tutte le imprese;
- utilizzo della possibilità che i cofinanziamenti previsti nell'utilizzo dei fondi strutturali europei possano non essere più conteggiati nel deficit pubblico in seguito alla chiusura del processo d'infrazione nei nostri confronti in sede europea;
- riordino del mondo delle agevolazioni fiscali riducendone l'entità complessiva.
In mancanza di tutto questo, l'impressione generale è che le forze politiche stiano pensando di poter realizzare tutte le loro proposte attraverso l'aumento del deficit per almeno due -tre anni.E' possibile che almeno per il primo anno questa ipotesi possa avere successo, stante l'abbondanza di capitali presenti sul mercato grazie alle politiche monetarie espansive della Federal Reserve, del Giappone, della Gran Bretagna e in parte della stessa BCE. E' probabilmente a questo che dobbiamo l'attuale riduzione del nostro spread sui titoli pubblici; tuttavia, non è l'Europa il vero ostacolo ad una scelta di questo tipo, bensì tutto dipende dalla valutazione dei mercati. Va ricordato che un punto di spread vale ca. 20 miliardi d'interessi ed un aumento di almeno un punto del costo del finanziamento privato. Una scelta di questo tipo ci porterebbe comunque ad un incremento probabile, nello spazio di due anni, ad oltre il 130- 135% del rapporto debito PIL.
La congiuntura attuale è comunque favorevole; tuttavia, non si può pensare ragionevolmente di affrontare questa strada, con probabilità di successo, senza un completo piano strategico che veda al suo interno una ripresa a partire dal 2014 di almeno 1% del PIL e nel 2015 di almeno il 2%, per poi rientrare con livelli di deficit inferiori all'incremento del PIL. Dobbiamo, come Paese, presentare un progetto complessivo di crescita tale da coagulare attorno ad esso il consenso del mondo dei produttori e delle categorie sociali più colpite dalla crisi e tale da convincere anche il mondo degli investitori sulla bontà del nostro agire. Sarebbe veramente pericoloso non capire la portata della posta in gioco che ci porterebbe inevitabilmente a dover uscire dalla moneta unica per imboccare una strada autonoma di riassesto.