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mercoledì 12 dicembre 2012

Equità, Populismo, Riformismo

All'interno del dibattito politico, in vista delle prossime elezioni politiche, si stanno affermando delle problematiche che se non considerate come aspetti di un'unica strategia di cambiamento rischiano di creare delle divisioni sbagliate.

La prima è rappresentata dall'esigenza d'equità che oggi si esprime soprattutto come richiesta di cittadinanza e d'inclusione da parte di milioni di persone che rischiano di essere espulse dal lavoro, non sanno quale sarà il loro futuro lavorativo, vivono in una condizione di precarietà e provvisorietà o sono del tutto senza lavoro.

In alcuni casi, come quello degli esodati non sanno addirittura se resteranno senza reddito e/o senza pensione. Accanto a loro, vi è una presenza numerosa e silenziosa di milioni di migranti lavoratori e marginali con problemi d'integrazione non indifferenti.

Come rispondere a questa richiesta?

Come costruire le occasioni di lavoro per queste persone? E' un problema solo d'equità o vi è anche un problema di crescita del nostro Paese?

In maniera opposta possiamo anche chiederci: è solo un problema di crescita o è anche un problema d'equità?

La specificità dell'equità è data ad esempio dalla diversità delle figure lavorative esistenti e dei diritti e delle garanzie ad esse connesse. E' tollerabile questa diversità fra impiego pubblico e privato? Fra precario e lavoratore a tempo indeterminato? Fra il lavoratore di un'impresa con meno di quindici dipendenti e una con più?

Un altro aspetto d'ineguaglianza è rappresentato dalla mancanza di un'adeguata progressività fiscale sui redditi che permette la convenienza di retribuzioni troppo superiori al salario operaio.

Un altro aspetto della mancanza d'equità è il minor peso della tassazione della rendita finanziaria rispetto a quella sul profitto del capitale investito in attività produttive e sul lavoro.

Ancora troviamo una sproporzione nella quota del reddito operaio dedicato all'affitto della casa.

Ancora non equa è la mancanza di valorizzazione del merito in tutti i settori sociali.

C'è tanto da fare e da portare avanti su questo piano e non credo che nessuno possa ragionevolmente opporsi ad una coalizione di sinistra che ne faccia un cavallo di battaglia.

Ma passiamo all'altra questione sollevata: è solo un problema d'equità? E' solo un'adeguata redistribuzione dei redditi e delle ricchezze quello che serve?

Siamo sicuri che la struttura economica della nostra società consenta una ripresa dello sviluppo trainato solo dal miglioramento delle condizioni d'eguaglianza?

Certo, queste sono indispensabili; ma, vi sono probabilmente altre questioni d'affrontare per consentire un adeguato sviluppo del nostro Paese.

Innanzi tutto: è necessaria la crescita economica per migliorare le condizioni complessive di vita oppure è sufficiente una semplice modifica delle modalità produttive per riassorbire la disoccupazione?

E' sufficiente modificare il nostro modello di sviluppo per ritrovare l'equilibrio sociale ed il benessere? Per molti la risposta è positiva. Per altri non è sufficiente.

La crescita della nostra economia è condizione necessaria per poter procedere alla soluzione delle diverse contraddizioni presenti nella nostra società. La crescita in particolare ci permetterebbe di riassorbire molto più velocemente la disoccupazione eccessiva presente e migliorare decisamente la struttura finanziaria del nostro Stato in termini reali. Quali sono i vincoli maggiori che impediscono la crescita?

Vi è sicuramente un problema di reperimento delle risorse da destinare agli investimenti.La pressione fiscale eccessiva, determinata dalla necessità di sostenere la spesa pubblica, sta riducendo il saggio del risparmio e di conseguenza l'investimento. In termini istituzionali assistiamo all'impoverimento patrimoniale delle banche ed alle difficoltà delle stesse sia di finanziare le imprese sia di farlo ad un costo ragionevole. E' per certi versi paradossale come l'intreccio della crisi del debito pubblico con quella del sistema bancario sia tale da costringere la BCE a fare gli interventi più importanti di liquidità proprio a sostegno del sistema bancario ma con la tacita intesa che lo stesso avrebbe utilizzato le disponibilità per sottoscrivere il debito pubblico del proprio paese. Oggi, pertanto, la crisi del debito pubblico diventa un elemento d'instabilità del sistema italiano perché indebolisce la capacità di risparmio, d'investimento privato e quindi di crescita e rende impossibile l'investimento pubblico per mancanza di risorse disponibili.

In questo quadro diventa fondamentale riuscire a controllare questa variabile per poter dare fiato a tutto il sistema economico.

Su questo punto è interessante osservare la differenza fra le due posizioni principali che si fronteggiano: l'ipotesi cosiddetta populista e quella riformista.

Secondo l'ipotesi populista, sia la questione del debito pubblico sia quella dello "spread" sono dei falsi problemi e derivano dalla particolare situazione monetaria dell'euro e dalla politica restrittiva adottata in sede europea.

La mancata sovranità sulla nostra moneta ci rende dipendenti dal mercato che ne approfitta per fare pagare i propri prestiti ad un costo elevato piegandoci alla speculazione. Se la BCE agisse come prestatore d'ultima istanza e calmierasse il mercato impedendo l'acuirsi dello spread fra i titoli dei diversi paesi, il problema sarebbe risolto. La BCE dovrebbe inondare di liquidità il sistema europeo mentre la Governance europea si dovrebbe presentare sul mercato direttamente per finanziare sia il debito comune sia dei grandi progetti d'investimento.  In mancanza di tutto questo, l'euro costituisce una trappola perché pone i paesi membri nella possibilità teorica del fallimento, esponendoli pertanto alla speculazione e aumentando le differenze al loro interno, a causa dell'alto costo del denaro che penalizza proprio quelli più poveri. Uscendo dall'euro e svalutando la moneta di un 20-30% otterremmo un immediato miglioramento dei parametri finanziari, un impulso delle nostre esportazioni ed un sensibile miglioramento della bilancia commerciale e dei conti con l'estero. Consentendo poi alla Banca d'Italia (con apposita legge) la possibilità di acquistare i titoli del debito pubblico si eviterebbe la speculazione sul nostro debito, si sposterebbe il credito maggiormente sul mercato nazionale, e si abbasserebbe il relativo costo. La creazione di moneta inoltre, in presenza di una situazione di recessione e di non ottimale impiego dei fattori produttivi, permetterebbe di dedicare risorse agli investimenti, trainati dalle esportazioni, ed ottenere il riassorbimento della disoccupazione,   senza che tutto questo si tramuti immediatamente in tensioni inflazionistiche. Nelle diverse varianti, si possono pensare a progetti d'occupazione pubblica dei disoccupati e di spesa pubblica trainante gli investimenti oppure, al contrario, forte riduzione della tassazione   per fa riprendere l'investimento privato e ritorno al deficit finanziato dall'emissione di moneta.

Tutto questo non comporterebbe nessuna volontà effettiva di procedere a riforme del sistema paese per razionalizzarlo. Non avrebbe bisogno di procedere a nessuna lotta contro la corruzione. Manterrebbe anzi aumenterebbe i vecchi privilegi, impoverirebbe i ceti medi ma in compenso potrebbe far ripartire la crescita e favorire l'occupazione. Si tralasciano poi tutte le implicazioni e le tensioni di carattere internazionale connesse a questa scelta.

La strada riformista appare molto più difficile, perché cerca di conciliare problemi complessi quali:

a)      La continuazione di un progetto europeo ostacolato da mille tensioni nazionalistiche e dall'indebolimento della solidarietà e della capacità propulsiva della crescita comune;

b)      le carenze democratiche dei processi decisionali europei;

c)       la pesantezza del debito pubblico come ostacolo allo sviluppo;

d)      la necessaria riforma del sistema Paese per recuperare produttività ed equità ed il reperimento delle risorse finanziarie per gli investimenti.

La strada riformista guarda alla crescita come figlia di un processo di cambiamento virtuoso del paese che lo riporti a crescere all'interno di un'Europa unità e che, così facendo, riporti in equilibrio la sua struttura finanziaria e consegua l'obiettivo della piena occupazione.

Il controllo della spesa pubblica e del volume del debito sono punti centrali da risolvere con una politica di razionalizzazione, controllo ed eliminazione degli sprechi ma anche, in nome dell'equità, con una proposta di riduzione del volume complessivo del debito attraverso la dismissione del patrimonio pubblico.Sarebbe opportuno, inoltre, che questa misura fosse accoppiata da un'imposta patrimoniale che operasse sotto forma d'acquisto forzoso (con possesso per almeno cinque anni) delle quote sociali dell'azienda a cui verrebbe conferito e dato in gestione il patrimonio pubblico da dimettere.

Il Partito Democratico ha scelto la strada del riformismo coniugandola con un progetto d'equità.

Dal punto di vista delle alleanze sembra quindi naturale che la coalizione dei progressisti possa guardare dopo le elezioni con attenzione ad un Centro politico che ha in Mario Monti la sua figura di riferimento e si muove in un'ottica riformista.

Non entrando nelle problematiche e nelle proposte per portare avanti il cammino riformista nel suo complesso, è bene tuttavia sottolineare che questo possibile percorso non può sperare di risolvere i problemi italiani grazie ad un intervento decisivo da parte europea. Pur continuando a battersi perché questo avvenga, il Partito Democratico ed i componenti di una possibile futura alleanza di governo devono trovare nella strada delle riforme, nell'equità e nella razionalizzazione della spesa pubblica le risorse necessarie per consentire la ripresa degli investimenti, la crescita e il riassorbimento della disoccupazione.

Se riusciremo a sviluppare e credere in questo programma di lavoro penso   che, a nostra volta, riusciremo ad ispirare la stessa fiducia nell'elettorato e soprattutto nelle giovani generazioni.

 

 

 

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