Una ripresa consistente dell'economia italiana può fare a meno del ruolo decisivo, svolto in tutta la storia del Novecento, da parte dell'intervento pubblico?
Come non ricordare il ruolo svolto dall'IRI- Istituto per la Ricostruzione Industriale, nato nel 1933 per iniziativa di Benito Mussolini durante l'epoca fascista, sotto la guida d'Alberto Beneduce, nel salvataggio delle principali Banche Italiane e nel sostegno del nostro sistema industriale?
L'IRI diventò così proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale controllando quasi l'intera industria degli armamenti, larga parte dell'industria delle telecomunicazioni e della produzione d'energia elettrica (Edison fu poi ceduta ai privati nel 1937), una larga quota della siderurgia civile e del settore delle costruzioni navali e della navigazione.
Anche nel dopoguerra, l'IRI svolse un ruolo significativo.
Dapprima, sotto la spinta di Oscar Sinigaglia realizzò un importante piano di sviluppo dell'industria di base e delle infrastrutture, all'interno di una sinergia, una " divisione dei compiti" con il settore privato. Si realizzo quasi una forma di cooperazione fra capitale pubblico e privato che fu alla base anche di quello che fu chiamato il "miracolo economico italiano". Molte aziende del gruppo avevano una composizione sociale mista con capitale pubblico e privato; inoltre, si utilizzo massicciamente il prestito obbligazionario a medio lungo termine ampiamente sottoscritto dai risparmiatori.
Fu solo successivamente che, con l'avvento alla guida dell'Istituto del democristiano Giuseppe Petrilli, che ne fu Presidente dal 1960 al 1979, fu teorizzato un ruolo dell'impresa e dell'investimento pubblico più legato agli obiettivi di finalità sociale generale, anche quando questi si presentavano come non economici e generatori di cosiddetti " oneri impropri".
Questo discostarsi da un criterio di "economicità" della gestione dell'impresa pubblica ebbe sicuramente l'effetto di consentire il salvataggio di realtà industriali in difficoltà, d'intervenire nelle zone sottosviluppate del paese e di contrastare i fenomeni di disoccupazione, accrescendo geometricamente l'occupazione pubblica. I dipendenti IRI superarono nel 1980 le 550.000 unità. Gli oneri impropri insieme alle congiunture economiche sfavorevoli, connesse alle crisi petrolifere, aumentarono tuttavia a dismisura l'indebitamento complessivo dell'IRI, che fu infine sostenuto con il debito dello Stato Centrale. La gestione antieconomica portò gli azionisti privati a ritirarsi progressivamente dalle aziende partecipate e tutto questo aprì poi la porta all'epoca delle privatizzazioni con la conseguente liquidazione dell'ente e di quell'esperienza.
C'è da chiedersi quindi se il criterio dell'"economicità" della gestione dell'impresa pubblica non sia, al contrario, una delle condizioni essenziali perché l'intervento dello Stato, come imprenditore, possa continuare a svolgere quel ruolo propulsivo necessario nei grandi passaggi epocali dello sviluppo economico di una nazione ed in tutte le situazioni in cui siamo alla presenza di un'inadeguatezza se non addirittura di una situazione di " fallimento" del mercato e dell'iniziativa privata.
Aveva ragione forse il grande economista liberale Luigi Einaudi ad affermare che: "L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dell'ospizio di carità".
Una gestione dell'impresa pubblica e dell'intervento dello Stato volta ad assorbire imprese decotte, a sostenere occupazione improduttiva, strutturalmente squilibrata dal punto di vista finanziario e occupata dai managers vicini ai potenti politici di turno non è per niente inevitabile.Esiste un'altra strada ed è quella indicata dai primi anni della gestione IRI e dalla figura di E.Mattei all'ENI .
Anche l'impresa pubblica deve sottostare ai criteri di economicità, come qualsiasi altra impresa. Bisogna avere un piano progettuale realizzabile, un Business Plan accuratamente predisposto, seguito e modificato opportunamente in relazione alle difficoltà incontrate.Una gestione finanziaria altrettanto attenta, equilibrata e sostenibile.
Abbiamo ancora delle importanti imprese pubbliche che vanno rafforzate e seguite con la dovuta attenzione. Non è certo operando la loro privatizzazione che si risolvono i problemi della nostra economia. Al contrario, anzi in alcuni casi, senza l'opportuna liberalizzazione del settore, si mantiene una situazione di mercato squilibrata ed alla fine negativa.
Una delle maggiori responsabilità della cattiva politica è che non solo ha occupato lo Stato e le sue partecipazioni; ma, ha consentito ed incoraggiato una sinergia poco "corretta" con l'imprenditoria privata ", privandola del coraggio necessario e dell'attenzione assidua che nasce dal mettere in gioco i propri capitali e le proprie prospettive in una visione di mercato competitiva.
In alcuni casi, godendo di una situazione protetta, il vero business è stato quello di speculare sulla plusvalenza fra l'acquisizione e la cessione delle quote sociali.
In conclusione, mi sembra sempre più evidente che il criterio di economicità e la progettazione imprenditoriale siano ancora più essenziali per ogni impresa, specie nel settore d'intervento pubblico, così come sono necessari tutti i vari controlli durante il percorso del piano industriale.
Come realizzarlo, in considerazione del pericolo della continua intromissione della politica in tutte le aziende pubbliche?
E' questo il vero problema: la separazione assoluta dei managers dai politici, la capacità di attrarre il merito, quella di realizzare una struttura delle retribuzioni e delle carriere legata esclusivamente ai risultati economici delle imprese. Con quali tetti e limiti? Chi dovrà sedere nei consigli di amministrazione, chi dovrà avallare o valutare le scelte dei managers ed i risultati aziendali? All'interno di quale piano complessivo? Bisognerà ritornare ad una progettazione almeno decennale dell'intervento pubblico all'interno di cui dovrebbe trovare coerenza il singolo Business Plan aziendale?
Ma se si riuscisse ad operare in tal senso, quale sarebbe la necessità di operare con l'intervento dello Stato e dell'impresa pubblica, se alla fine quasi niente la distinguerebbe da quella privata? Perché quindi non operare solo con delle opportune facilitazioni ed incentivi, per far conseguire al mercato e all'imprenditoria privata gli obiettivi strategici nazionali?
Vi sono probabilmente almeno una serie di motivazioni che ci consentono di ritenere utile l'intervento diretto dello Stato come imprenditore:
1) la possibilità di operare investimenti con tempi di ritorno lunghi e quindi complessivamente meno attraenti per un privato.
2) la possibilità che, proprio per questo motivo, l'intervento sia orientato verso settori molto avanzati e su cui sono necessari importanti interventi infrastrutturali (dalla dimensione finanziaria elevata e dal carattere generale. Ad esempio quello che fu il ruolo dello Stato Federale USA nel settore aerospaziale e successivamente nella realizzazione delle cosiddette " autostrade" informatiche)
3)la necessità di operare all'interno di una situazione di precedente fallimento di mercato cercando di rimuoverne le problematiche.
4) la necessità di recuperare gap su settori importanti dell'economia mondiale ma che richiedono interventi talmente massicci che forse solo una rete d'imprenditori privati ( chi li organizzerebbe?) avrebbe la possibilità di realizzare ma che sicuramente è nelle possibilità del settore pubblico.
5) la possibilità di rimettere in piedi realtà in evidente difficoltà di mercato che si ritengono recuperabili ed utili in una politica di sviluppo nazionale complessiva.
Vi sono pertanto sufficienti ragioni per non privare l'azione politica del Governo dalla possibilità dell'utilizzo dell'intervento pubblico dello Stato come imprenditore. L'importante è che si realizzino le condizioni di economicità della sua gestione.