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martedì 15 ottobre 2013

Attualità e condizioni dello Stato imprenditore


Una ripresa consistente dell'economia italiana può fare a meno del ruolo decisivo, svolto in tutta la storia del Novecento, da parte dell'intervento pubblico?
Come non ricordare il ruolo svolto dall'IRI- Istituto per la Ricostruzione Industriale, nato nel 1933 per iniziativa di Benito Mussolini durante l'epoca fascista, sotto la guida d'Alberto Beneduce, nel salvataggio delle principali Banche Italiane e nel sostegno del nostro sistema industriale?
L'IRI diventò così proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale controllando quasi l'intera industria degli armamenti, larga parte dell'industria delle telecomunicazioni e della produzione d'energia elettrica (Edison fu poi ceduta ai privati nel 1937), una larga quota della siderurgia civile e del settore delle costruzioni navali e della navigazione.
Anche nel dopoguerra, l'IRI svolse un ruolo significativo.
Dapprima, sotto la spinta di Oscar Sinigaglia realizzò un importante piano di sviluppo dell'industria di base e delle infrastrutture, all'interno di una sinergia, una " divisione dei compiti" con il settore privato. Si realizzo quasi una forma di cooperazione fra capitale pubblico e privato che fu alla base anche di quello che fu chiamato il "miracolo economico italiano". Molte aziende del gruppo avevano una composizione sociale mista con capitale pubblico e privato; inoltre, si utilizzo massicciamente il prestito obbligazionario a medio lungo termine ampiamente sottoscritto dai risparmiatori.
Fu solo successivamente che, con l'avvento alla guida dell'Istituto del democristiano Giuseppe Petrilli, che ne fu Presidente dal 1960 al 1979, fu teorizzato un ruolo dell'impresa e dell'investimento pubblico più legato agli obiettivi di finalità sociale generale, anche quando questi si presentavano come non economici e generatori di cosiddetti " oneri impropri".
Questo discostarsi da un criterio di "economicità" della gestione dell'impresa pubblica ebbe sicuramente l'effetto di consentire il salvataggio di realtà industriali in difficoltà, d'intervenire nelle zone sottosviluppate del paese e di contrastare i fenomeni di disoccupazione, accrescendo geometricamente l'occupazione pubblica. I dipendenti IRI superarono nel 1980 le 550.000 unità. Gli oneri impropri insieme alle congiunture economiche sfavorevoli, connesse alle crisi petrolifere, aumentarono tuttavia a dismisura l'indebitamento complessivo dell'IRI, che fu infine sostenuto con il debito dello Stato Centrale. La gestione antieconomica portò gli azionisti privati a ritirarsi progressivamente dalle aziende partecipate e tutto questo aprì poi la porta all'epoca delle privatizzazioni con la conseguente liquidazione dell'ente e di quell'esperienza.
C'è da chiedersi quindi se il criterio dell'"economicità" della gestione dell'impresa pubblica non sia, al contrario, una delle condizioni essenziali perché l'intervento dello Stato, come imprenditore, possa continuare a svolgere quel ruolo propulsivo necessario nei grandi passaggi epocali dello sviluppo economico di una nazione ed in tutte le situazioni in cui siamo alla presenza di un'inadeguatezza se non addirittura di una situazione di " fallimento" del mercato e dell'iniziativa privata.
Aveva ragione forse il grande economista liberale Luigi Einaudi ad affermare che: "L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dell'ospizio di carità".
Una gestione dell'impresa pubblica e dell'intervento dello Stato volta ad assorbire imprese decotte, a sostenere occupazione improduttiva, strutturalmente squilibrata dal punto di vista finanziario e occupata dai managers vicini ai potenti politici di turno non è per niente inevitabile.Esiste un'altra strada ed è quella indicata dai primi anni della gestione IRI e dalla figura di E.Mattei all'ENI .
 
Anche l'impresa pubblica deve sottostare ai criteri di economicità, come qualsiasi altra impresa. Bisogna avere un piano progettuale realizzabile, un Business Plan accuratamente predisposto, seguito e modificato opportunamente in relazione alle difficoltà incontrate.Una gestione finanziaria altrettanto attenta, equilibrata e sostenibile.
Abbiamo ancora delle importanti imprese pubbliche che vanno rafforzate e seguite con la dovuta attenzione. Non è certo operando la loro privatizzazione che si risolvono i problemi della nostra economia. Al contrario, anzi in alcuni casi, senza l'opportuna liberalizzazione del settore, si mantiene una situazione di mercato squilibrata ed alla fine negativa.
Una delle maggiori responsabilità della cattiva politica è che non solo ha occupato lo Stato e le sue partecipazioni; ma, ha consentito ed incoraggiato una sinergia poco "corretta" con l'imprenditoria privata ", privandola del coraggio necessario e dell'attenzione assidua che nasce dal mettere in gioco i propri capitali e le proprie prospettive in una visione di mercato competitiva.
In alcuni casi, godendo di una situazione protetta, il vero business è stato quello di speculare sulla plusvalenza fra l'acquisizione e la cessione delle quote sociali.
In conclusione, mi sembra sempre più evidente che il criterio di economicità e la progettazione imprenditoriale siano ancora più essenziali per ogni impresa, specie nel settore d'intervento pubblico, così come sono necessari tutti i vari controlli durante il percorso del piano industriale.
Come realizzarlo, in considerazione del pericolo della continua intromissione della politica in tutte le aziende pubbliche?
E' questo il vero problema: la separazione assoluta dei managers dai politici, la capacità di attrarre il merito, quella di realizzare una struttura delle retribuzioni e delle carriere legata esclusivamente ai risultati economici delle imprese. Con quali tetti e limiti? Chi dovrà sedere nei consigli di amministrazione, chi dovrà avallare o valutare le scelte dei managers ed i risultati aziendali? All'interno di quale piano complessivo? Bisognerà ritornare ad una progettazione almeno decennale dell'intervento pubblico all'interno di cui dovrebbe trovare coerenza il singolo Business Plan aziendale?
Ma se si riuscisse ad operare in tal senso, quale sarebbe la necessità di operare con l'intervento dello Stato e dell'impresa pubblica, se alla fine  quasi niente la distinguerebbe da quella privata? Perché quindi non operare  solo con delle opportune facilitazioni ed incentivi, per far conseguire al mercato e all'imprenditoria privata  gli obiettivi strategici nazionali?
Vi sono probabilmente almeno una serie di motivazioni che ci consentono di ritenere utile l'intervento diretto dello Stato come imprenditore:
1) la possibilità di operare investimenti con tempi di ritorno lunghi e quindi complessivamente meno attraenti per un privato.
2) la possibilità che, proprio per questo motivo, l'intervento sia orientato verso settori molto avanzati e su cui sono necessari importanti interventi infrastrutturali (dalla dimensione finanziaria elevata e dal carattere generale. Ad esempio quello che fu il ruolo dello Stato Federale USA nel settore  aerospaziale e successivamente nella realizzazione delle cosiddette " autostrade" informatiche)
3)la necessità di operare all'interno di una situazione di precedente fallimento di mercato cercando di rimuoverne le problematiche.
4) la necessità di recuperare gap su settori importanti dell'economia mondiale ma che richiedono interventi talmente massicci che forse solo una rete d'imprenditori privati ( chi li organizzerebbe?) avrebbe la possibilità di realizzare ma che sicuramente è nelle possibilità del settore pubblico.
5) la possibilità di rimettere in piedi realtà in evidente difficoltà di mercato  che si ritengono recuperabili ed utili in una politica di sviluppo nazionale complessiva.
Vi sono pertanto sufficienti ragioni per  non privare l'azione politica del Governo dalla possibilità dell'utilizzo dell'intervento pubblico dello Stato come imprenditore. L'importante è che si realizzino le condizioni di economicità della sua gestione.
 
 
 

6 commenti:

  1. Beppe, perdonami, non sono d'accordo con te. Lo stato non deve intraprendere, perché nulla ti garantisce che possa farlo rispettando le regole del gioco (vedi il caso del trasporto aereo sotto i nostri occhi in questi giorni). Il condizionamento della politica sui meccanismi di gestione sarebbe nefasto ed è difficile stabilire dei meccanismi di neutralizzazione di questi effetti. Al contrario, lo stato ha la concreta possibilità di fissare le regole del gioco e vigilare sul loro rispetto, attraverso un processo regolatorio articolato e rigoroso. Anche nei settori strategici, l'apertura al privato in presenza di regole certe e di una politica fiscale adeguata, può liberare efficienza e opportunità di sviluppo. Lo stato leggero è il sicuro obiettivo da perseguire. Lo stato deve concentrarsi sui settori che qualificano il welfare (sanità, istruzione, servizi sociali) ma non nei settori ad alto tasso di sviluppo. Non sarebbe capace di stare dietro ai tassi di evoluzione di questi settori e rischierebbe di inquinarli.

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  2. Eppure il passato ha visto momenti di sinewrgia fra lo Stato imprenditore e l'iniziativa privata. Ad esempio il ruolo degli USA nelle autostrade informatiche. Perchè non potrebbe essere utile anche in Italia?D'altra parte la prima azione è nei riguardi di quello in cui lo Stato è già presente. Prima di pensare a dismettere attività perchè non assicurarsi di rimettere il tutto sui criteri di economicità? Esistono ancora centinaia di aprtecipazioni statali e settori strategici gestiti dal controlo statale . Perchè non cominciare ad adoperarci per l'uscita della politica da queste realtà?

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  3. Bisognerebbe prima stabilire delle regole di governance delle partecipazioni statali che dubito possano essere varate in tempi brevi. Non credo che possa farle questa generazione di politici. Sarà, forse, una conseguenza del radicale rinnovamento del gruppo dirigente del Paese. Se saremo capaci di farlo. Il caso Alitalia è la palese dimostrazione che questo ceto politico è unfitted con i meccanismi di gestione economica dell'intervento pubblico nell'economia. Inoltre, è critico il ruolo del sindacato che, se fosse mai possibile, dimostra un grado di ritardo culturale ancora più impressionante dei politici. Registro una pesante deriva anti-capitalistica che attanaglia ancora la sinistra e che impedisce l'emergere, al suo interno, di posizioni avanzate in tema di legittimità e centralità del ruolo dell'impresa nei meccanismi dello sviluppo. Nel passato, la convivenza dell'intervento pubblico nell'economia con l'iniziativa privata era consentita dalla relativa velocità dei processi di evoluzione tecnologica, dall'assenza della globalizzazione, dalla chiusura dei sistemi economici nazionali. Oggi, e la storia quotidiana ce lo sta dimostrando, il cambiamento va alla velocità della luce, il mercato domestico non esiste più se non su scala continentale, e la competizione è globale. In uno scenario di questa complessità, lanciare nell'agone competitivo aziende partecipate dallo stato significa perdere in partenza. Prendi per esempio i servizi pubblici di illuminazione delle strade. Oggi in Italia sono molto attive le multinazionali francesi (GDF, EDF, etc.). Ma ti immagini un'azienda pubblica a competere con queste? Lo spazio dello stato è sul piano regolatorio dei meccanismi di mercato e sul rispetto di tali paletti.

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  4. Quando parlo di " economicità" delle scelte dello Stato imprenditore non mi riferisco solamente al conseguimento dell'utile d'esercizio o del successo a breve nel mercato . Su questo è facile essere d'accordo e nasce immediatamente il dubbio di perchè lo Stato debba inserirsi in settori già maturi. A quale fine?

    No , il mio discorso è legato proprio alle attività che con imprese , con Enti, Con consorzi o reti d'impresa ecc. lo Stato può mettere in piedi all'interno di un progetto economico pluriennale per intervenire su settori decisivi ma su cui abbamo accumulato un ritardo importante o addirittura per avviare nuove attività . La mia semplice osservazione è che anche in questi casi è necessario valutare i tempi di ritorno dell'investimento e predisporre le opportune correnti reddituali necessarie a realizzarlo.

    La tentazione altrimenti è ricorrere ad un aumento del debito di cui non si conoscono i tempi e le modalità del rimborso.

    Ritengo non sostenibile la tesi che ritiene che questa programmazione sia impossibile. Che i tempi di ritorno dell'investimento non siano prevedibili e che addirittura non possano essere previsti i tempi di messa in produzione o commercializzazione dei servizi/prodotti..

    No, penso che invece il criterio di economicità generale e della sostenibilità nel tempo della programmazione e dell'operatività dello Stato imprenditore debba essere invece una linea guida della sua iniziativa peraltro necessaria come acceleratore e stimolatore dei processi

    E' pericoloso imputare il tutto al contrario all'espansione perenne di un debito pubblico che invece di essere un investimento sul futuro diventa un macigno . L'unico modo pe evitare tutto questo non può essere nè la sola austerità nè lil ricorso infinito all'espansione del debito ricorrendo alla fine alla sua monetizzazione in un continuo inseguirsi fra inflazione e. svalutazione ; ma al contrario una programmazione della sostenibilità , della validità e dei tempi possibili di ritorno del'investimento.
    Riguardo al problema dell'utilizzazione o meno dello strumento diretto dell'impresa pubblica non mi sembra che sia riconducibilwe solo al cattivo uso che se ne è fatto con l'intromissione della politica nelle scelte gestionali. C'è da dire anche che qundo si è raggijnto lo scopo dell'avviamento del settore si dovrebbe pian piano procedere alla liberalizzazione e alla totale privatizzazione delle attività pubbliche dirette.








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  5. Colleghi parte dell'assorbimento del debito pubblico alla generazione di flussi positivi provenienti dalle imprese partecipate dallo Stato? Capisco bene? In caso affermativo, temo che tali assorbimenti possano diventare di durata eterna. Il debito è figlio di una gestione dissennata osservata a partire dagli anni 80, che merita di essere trattato con i mezzi della dismissione guidata e sapiente dei cespiti pubblici non strategici. Non vedo altra strada. Lascio uno spiraglio alla possibilità di partecipazioni di minoranza dello Stato nei settori strategici, con la consegna della vigilanza per il rispetto degli interessi collettivi che possono emergere nella vita delle aziende partecipate. Penso all'aerospaziale, penso alla banda larga, e penso sopratutto alla modernizzazione dell'apparato della pubblica amministrazione, nel quale ho lavorato e che mi pare uno dei settori più capaci di assorbire lavoro e competenze. In questo settore, finché lo Stato si limiterà a fungere da compratore di soluzioni, il rischio di inefficienza, sprechi e mostruosità è in agguato. L'innovazione organizzativa e nei sistemi di gestione della PA, assorbirebbe tantissimo lavoro qualificato se fosse focalizzato sulla disseminazione delle competenze e utilizzasse soluzioni software "off the shelf". Invece nel nostro paese, per agevolare le cattive abitudini, hanno sempre preferito inventarsi soluzioni custom, che hanno trasferito sui sistemi automatici i vecchi vizi e le vecchie inefficienze.

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  6. No non volevo dire questo. Sono anch'io d'accordo che la riduzione dell'attuale stock del debito debba avvenire con la dismisisone del patrimonio immobiliare pubblico opportunamente valorizzato ( affidato ad apposito fondo di gestione con pieni poteri sul cambio destinazione d'uso e tutte le incombenze burocratiche necessarie alla valorizzazione e successiva vendita) o e partecipazioni non strategiche. Sono invece contrario ad un uso dei ricavati della possibile vendita per sovvenzionare la spesa corrente o delle manovre finanziarie come suggerito sia dall'attuale Governo che dal consigliere economico di Renzi. Detto questo invece la progettualità del concetto di economicità e soistenibilità dell'intervento pubblico diretto come Stato imprenditore mi sembra una linea guida da seguire da oggi in poi per rendere da un lato efficace e dall'altro sostenibile questo stesso intervento.Ritengo inotyre questa metodologia una delle poche attraverso cui sia possibile mettere alle porte la "politica" dalla gestione dell'attività

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