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sabato 12 novembre 2016

La vittoria di Trump e la risposta della sinistra



La vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane può essere vista come una risposta organica da destra ai cambiamenti ed alle problematiche che le nostre società si trovano ad affrontare come conseguenza di un aumento delle disuguaglianze e di un’estesa ed importante globalizzazione, che ha comportato un’ampia liberalizzazione del movimento delle merci, dei capitali, del lavoro e quindi delle persone.
E’ anche, tuttavia, la sconfitta di una parte dominante della sinistra che non è riuscita  a coniugare lo sviluppo e la crescita economica con un adeguato sostegno e gestione delle paure e delle sofferenze degli esclusi , dei marginali e di tutti coloro che subiscono il peso del cambiamento.

Gli equilibri internazionali sono soggetti ad una fase di cambiamento importante che comporta il riassetto d’intere aree, non privo di forti tensioni militari e dalla ricomparsa del terrorismo.
All’interno delle nostre società, ci confrontiamo con movimenti migratori che richiedono un’integrazione culturale e lavorativa di queste persone ma che mettono in discussione a volte parte delle nostre convinzioni, della nostra cultura, le stesse conquiste sociali fin qui realizzate.
D’altra parte, l’incapacità di una loro gestione organizzata ed organica comporta un forte disagio sul lavoro e nei quartieri di residenza, specialmente per le persone meno abbienti, oltre che l’aumento di un utilizzo di queste energie e risorse umane in occupazioni ai limiti della marginalità e dell’illegalità.
La circolarità ed il movimento dei capitali verso il migliore rendimento hanno portato a grandi fenomeni di delocalizzazione delle produzioni che, se hanno avvantaggiato i paesi più poveri, hanno contemporaneamente rappresentato una perdita immediata di lavoro per le maestranze oggetto del trasferimento produttivo, in attesa di una loro non sempre facile ricollocazione nel mercato del lavoro.
La concorrenza di merci, che arrivano sui nostri mercati a prezzi molto più bassi di quelli delle produzioni locali, mette poi in ginocchio diversi settori produttivi e piccole aziende, costrette a chiudere o tentare una profonda ristrutturazione.
Chi paga in termini di preoccupazione per l’avvenire sono forse i ceti popolari e quel ceto medio che, fino agli anni ’60, aveva visto migliorare costantemente le prospettive di benessere.
I settori a tecnologia avanzata, il capitale finanziario, le professioni di grado più elevato hanno invece potuto utilizzare positivamente la realtà globalizzata, incrementando ulteriormente il proprio mercato di riferimento e ottenendo una maggiore remuneratività delle proprie prestazioni o delle proprie rendite di posizione o finanziarie.
In qualche modo, le conseguenze sono state diversificate sia sul piano della divisione internazionale del lavoro sia sul piano interno con un aumento delle disuguaglianze, del peso dei margini della finanza rispetto al capitale produttivo, con una crisi delle prospettive del futuro e della convivenza sociale.
 La forte disoccupazione, che ha tormentato gli anni della crisi finanziaria a partire dal 2007, la discontinuità e precarietà del rapporto di lavoro, il timore della prospettiva di una stagnazione secolare, l’aumento delle disuguaglianze sociali e della distribuzione della ricchezza, la difficoltà di rapporto e d’integrazione di masse enorme di migranti, rendono difficile l’assetto e lo sviluppo delle nostre società.
E’ questo il quadro all’interno di cui si colloca lo scontro fra le risposte della destra e della sinistra.
Mentre la destra accentua la dimensione nazionalistica e protettiva per cavalcare la paura del nuovo e del diverso, resa urgente dal malessere vissuto da parte della popolazione di fronte alle conseguenze negative di una mancata gestione dei processi, dall’altra una prospettiva di sinistra non può essere culturalmente subalterna ad un’impostazione puramente liberista ma deve ritrovare nella sua storia e in una capacità nuova d’elaborazione culturale una risposta convincente alla disperazione ed all’insofferenza delle persone.
L’importanza dell’azione pubblica, nei confronti della quale, a causa di anni di mala politica, di parassitismo e cattiva amministrazione, la gente ha sviluppato una reazione di sfiducia, va recuperata.
Va riconsiderato un ruolo equilibratore dello Stato recuperando il senso della solidarietà ed il primato della politica sull’economia, come espressione del bene complessivo della comunità.
Bisogna quindi, assolutamente, introdurre degli importanti ammortizzatori sociali che mitighino le conseguenze della globalizzazione, spostino risorse dalla finanza alla produzione nazionale, dalla rendita al lavoro, riducano le disuguaglianze, creino occasioni di crescita e di occupazione per tutti, diano un’indicazione condivisa sui criteri di uno sviluppo compatibile con l’ambiente in cui viviamo.
Il ruolo dell'intervento dello Stato nell'economia è di nuovo fondamentale come avvenne democraticamente nel New Deal e come sempre più esponenti progressisti cominciano a riscoprire.Da Sanders e Corbyn fino ad alcune dichiarazioni del sempre attento e lucido Romano Prodi ma anche di Enrico Rossi all’interno del PD o dello stesso Scalfari che nei suoi articoli auspica una maggiore progressività fiscale sui redditi elevati.
E' importante che l'iniziativa pubblica provveda a lanciare grandi progetti produttivi che impieghino direttamente disoccupati di lunga durata e migranti insieme per produrre ricchezza e servizi per tutti.
Non si tratta di ritornare ad invocare un Socialismo o addirittura un Comunismo al di fuori del tempo e con i limiti evidenti che la storia ci ha mostrato; ma di ritrovare il senso di solidarietà ed un ruolo di equilibrio dell’intervento dello Stato nell’economia, come espressione del bene comune, reinventando il nostro futuro.
Un ulteriore problema da considerare è come si possano realizzare ammortizzatori sociali verso quei settori produttivi che subiscono una concorrenza tale dall'estero da finire per soccombere; mentre, al contrario, possono essere ritenuti socialmente importanti o strategicamente rilevanti.
Da un lato è normale che alcune produzioni vengano dimesse perché non più convenienti; ma, dall'altro, alcune realtà vanno comunque mantenute per assicurare un equilibrio del sistema Italia. Tutto questo senza ricorrere alla guerra commerciale dei dazi, che è la risposta nazionalistica della destra; ma, neanche evitando il problema.
E possibile che una strada da seguire sia quella di porre a carico della collettività parte del danno.
In qualche caso nazionalizzando, in altri assumendo centralmente la distribuzione dei prodotti e, di fatto, socializzando parzialmente, con l’acquisto dai produttori a prezzo politico,   la possibile perdita economica di settori non più in grado di restare sul mercato ma di cui non possiamo fare a meno. Questo dovrebbe consentire di porre contemporaneamente in atto una politica di ristrutturazione e razionalizzazione di questi settori per permettere il loro graduale reinserimento autonomo nel mercato e la ricollocazione di tutte le risorse in esubero.
Il protezionismo ed il nazionalismo sono stati, già nella prima parte del novecento, delle risposte adottate in molti paesi alla crisi finanziaria del 1929 ed alla grande depressione economica successiva. La guerra commerciale che ne è seguita si è poi trasformata in confronto armato.
Tutto questo non è inevitabile; così come non è necessario che si risponda alla diversità con la paura e la condanna.
Possiamo provare a confrontarci e a sperimentare che spesso l’innovazione e le grandi civiltà nascono dall’incontro e dalla successiva rielaborazione delle diverse culture e tradizioni.


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